CASO BOSCHI- BANCA ETRURIA IL PROCURATORE ROSSI ED I SUOI INCARICHI GOVERNATIVI

1.Il Csm (consiglio superiore della magistratura) non ha confermato l’incarico di  procuratore di Arezzo al dr.  Roberto Rossi, a giudizio  per essersi assegnato ed avere trattato il fascicolo penale sul fallimento di  Banca Etruria,  pur essendo consulente al Dipartimento affari giuridici e legislativi presso la presidenza del Consiglio dei Ministri (allora Renzi),  ministro delle Riforme M. E.  Boschi, indagato  (in quel processo o in altro limitrofo) il suo genitore Pier Luigi,  vicepresidente della Banca.

Secondo la Commissione (relatore Davigo), Rossi avrebbe compromesso «il requisito dell’indipendenza da impropri condizionamenti», almeno «sotto il profilo dell’immagine».
E ciò  per aver proseguito l’incarico extragiudiziario di consulenza  che gli era stato conferito con il governo Letta e confermato dal successivo esecutivo, anche dopo l’apertura dell’indagine suddetta (cronaca di GM Jacobazzi su IL Dubbio 23 10 19).

2. La Consiliatura precedente aveva  escluso ogni irregolarità nella trattazione del fascicolo e nei rapporti con i Boschi.
«Allo stato non ci sono gli estremi per l’apertura di una pratica per incompatibilità ambientale o funzionale: abbiamo ascoltato un magistrato sereno che dà prova di imparzialità», disse verso la fine del 2015 l’allora presidente della Prima commissione del Csm, il laico montiano Renato Balduzzi.
Secondo costui, Rossi aveva risposto ‘ in modo convincente ed esauriente’ a tutte le domande, «manifestando la disponibilità a chiarire tutti gli aspetti sia sull’incarico di consulenza sia sulle indagini in essere. Ed anche manifestando serenità, imparzialità ed indipendenza rispetto ai procedimenti di cui si occupa» (ancora cronaca Jacobazzi).

3. Rossi in una memoria del procedimento (sub 1) aveva eccepito  «clamoroso e sconcertante travisamento dei fatti», perché avrebbe lasciato il Dipartimento  42 giorni (!) prima del  fallimento della Banca; non vi sarebbe stata “contemporaneita” (verosimilmente non intesa, da lui,   come contestualità…ndr ).

4. E comunque egli avrebbe riscosso  la solidarietà dei colleghi dell’ufficio e dell’avvocatura aretina. Per la quale Piero Melani Graverini (oggi consigliere del Cnf), ha fatto notare come «sia difficile trovare uno con le sue qualità: con lui la porta è sempre aperta, il confronto costante. Cosa può sperare di meglio un avvocato?» (ancora cronaca Jacobazzi).

ORBENE

5. La Commissione  ha addebitato al Procuratore di avere “proseguito” nell’incarico governativo anche durante il processo.

Non  di avere assunto l’incarico governativo, da Procuratore…

5.1   La precedente Commissione aveva financo rilevato “serenità imparzialità indipendenza”,   nell’esercizio del doppio incarico, governativo e magistratuale….

Tanto meno aveva avuto da ridire sulla assunzione del doppio incarico….

5.2 Il personale magistratuale e amministrativo del Tribunale di Arezzo ha plaudito al  doppio incarico ed al modo del suo  esercizio….

E quindi,  come quella Commissione,  non ha avuto da ridire sulla assunzione del doppio incarico…

5.3 Il portavoce del Foro aretino ha  fatto altrettanto, e anzi, servilmente, ha esultato  chè  “la porta (del procuratore ndr ) sia sempre aperta”,  all’avvocato  (dopo avervi bussato, in ansiosa attesa del “passi”? ndr ). E financo (pago se non tronfio della sottomissione), che “l’avvocato  non potrebbe sperare di meglio….”

E quindi, nemmeno il Foro ha avuto da ridire sul doppio incarico….

5.4 E ovviamente non ha  avuto da ridire “la politica”,  che l’incarico ha deliberatamente conferito, in specie quella del  Governo Letta (segretario del PD Renzi,  “sottosegretario” ME Boschi), poi confermata dal Governo Renzi (come detto)…

6. Ma se è comprensibile che la commistione di potere giudiziario e potere politico non  disturbi la magistratura, che  con essa estende il proprio a quello  altrui, particolarmente al potere  legislativo – oggi  pressochè tutta la legislazione penale, gran parte di quella civile, anche per la qualità  degli interessi che tutela (quasi mai dell’utenza, quasi sempre della Istituzione inquirente e giudicante), ha esclusiva origine nelle volontà della  magistratura.). 

6.1 E se è comprensibile  che non disturbi la politica la quale,  incapace di autonomia (e autocoscienza)  per insufficienza culturale, cerca  referenza ( e riferimento)  nella magistratura (oltre che  “competenza”, rifiutata quella della avvocatura e della accademia, oviamente perché prive, queste, del potere  di -illimitata- normatività  sociale).

Comprensibile tutto ciò, si diceva

6.2 E’ incomprensibile, anzi inammissibile,  che, la  commistione,  non disturbi l’avvocatura.
La quale, istituzionalmente  e  socialmente (tanto che è  “elettiva”) preposta alla tutela dell’interesse sociale generale o diffuso, quindi più che mai interessata a combatterla (perché  anticamera della confusione dei poteri costituzionali, che solo la separazione  relativizza in estensione, ne  previene la assolutizzazione), tuttavia non lo fa.  

6.3 E’ inaccettabile cioè che la avvocatura non punti, dritta,  alla esclusione  della magistratura da qualunque ambio funzionale non sia il suo (iniziando col  rimuovere  norme -di vario rango- e prassi che eventualmente giustifichino  l’intrusione).

Che essa non abbia,  a primo obbiettivo sociopolitico, che la  “indipendenza da ogni altro potere”, della magistratura,  non implichi  dipendenza di ogni altro potere da essa.

Pietro Diaz

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QUANDO D’ALEMA DRIBBLO’ OCALAN, PASSANDO LA PALLA AI PRECURSORI DI ERDOGAN

1.Il 12 novembre 1998, Abdullah Ocalan, leader del PKK, il partito dei lavoratori Curdi militante in Turchia, ricercato dagli organismi (giudiziari e politici) del Paese quale “terrorista”, giunge in Italia provenendo dalla Russia.
E’ accompagnato dal deputato al Parlamento italiano Ramon Mantovani, e chiede asilo politico, ricorrendone le condizioni di cui all’art. 10 della Costituzione, che lo assegna (obbligatoriamente) a colui al quale, nel suo Paese, sia impedito l’effettivo esercizio delle libertà democratiche previste da quella Carta (Ocalan, primo difensore politico del popolo curdo oppresso secolarmente dalla Turchia, è per ciò ricercato, con accuse da pena di morte).

A capo del Governo italiano è “la sinistra”, diretta da Massimo D’Alema ( e altri del genere).
E’ un periodo (breve) nel quale la vita civile e democratica pare riossigenarsi, riprendersi dalla ipossia poltica.
Lo segnala il gesto di Ramon Mantovani, deputato di Rifondazione Comunista fino a poco prima partito governativo critico del Comunismo passato, nella intenzione dialettico e liberatorio.

2. Poiché Ocalan è inseguito da un mandato di cattura della autorità giudiziaria, è trattenuto al Celio (una prigione militare), in Roma, per il disbrigo giudiziario della richiesta di estradizione espressa da quella autorità.
E poiché ha richiesto asilo, è in attesa del suo disbrigo amministrativo.

Peraltro, l’estradizione verso un Paese che, per l’accusa di reati politici che la sospinga preveda la pena di morte, non potrebbe essere concessa dall’organo giudiziario italiano, poiché assolutamente vietato dagli artt. 10.4, 26.2 della Costituzione.
Se mai, l’accusato, potrebbe essere processato in Italia.
E inoltre, l’asilo dovrebbe essere concesso, in adempimento dell’obbligo costituzionale suindicato.

Quindi la riossigenazione della vita democratica pare assumere forma e forza giuridica.
E politica, parendo che il Governo, ed il suo Capo (d’altronde “leader maximo”) voglia sbandierarle simbolicamente e pedagogicamente sopra il precedente periodo politico. Parendo quasi che le abbiano concertate.
Tanto più che Ocalan, nelle sue prime interviste, ha annunciato di prefiggersi la soluzione politica (storica) al conflitto Curdo Turco.

3. S’alzano in volo interessati approcci di Stati esteri, alla faccenda.
Oltre la Turchia, Stati Uniti e Israele, ed i loro Servizi.
Ma il diritto italiano è assai chiaro: divieto di estradizione, obbligo di asilo, assoluti.
Tanto che, preoccupato delle more della decisione sul secondo, Luigi Saraceni (fondatore di magistratura democratica e, allora, avvocato) difensore di Ocalan , assumendo l’asilo come “diritto perfetto”, cioè decidibile dalla giurisdizione ordinaria (in specie il Tribunale di Roma) anzichè da organo politico-amministrativo (la apposita Commissione ministeriale), la adisce, e ne ottiene il riconoscimento.

Così Ocalan ha acquisito il diritto di stare nel territorio italiano.
Nessuno potrebbe allontanarlo, per alcuna ragione.
E largo movimento di opinione lo sostiene e assiste.

4. Senonchè, inopinatamente, il 16 gennaio 1999, Ocalan sparisce. Altrettanto inopinatamente D’Alema, interpellato (cronaca di Corriere delle Sera) sul fatto qualche giorno dopo, avrebbe risposto, indispettito “Non so dove sia ora Ocalan, nè mi interessa”.

5. Ci si è potuti interrogare, in seguito, se effettivamente egli non avrebbe saputo, e comunque non sarebbe stato interessato a sapere, nientedimeno che:
Il 16 gennaio 1999 Ocalan si era diretto “spontaneamente” a Nairobi in Kenia,
Li sarebbe stato ospite della ambasciata greca, senza che tuttavia la Grecia concedesse asilo.
Il 15 febbraio 1999, sarebbe stato catturato (rapito), mentre si dirigeva all’aeroporto di Nairobi scortato da alcuni agenti greci, “da un commando del Mossad”.
Il Servizio israeliano lo avrebbe ceduto ai Servizi turchi.
Condotto in Turchia, sarebbe stato rinchiuso nel carcere di massima sicurezza dell’isola di Imrali.
Li sarebbe stato condannato alla pena di morte per atti di terrorismo (pena che, tuttavia, il Presidente turco Ecevit sospese, ad evitare inimmaginabili livelli di detonazione politica dell’affare. Tanto che è probabile che abbia fatto di tutto perché, di lì a poco, nel 2002, la Turchia abolisse la pena di morte, convertendola in quella dell’ ergastolo).

6. Quindi, D’Alema non avrebbe saputo come e perché Ocalan fosse scomparso, né sarebbe stato interessato a saper che fine avesse fatto?
Non lo avrebbe saputo, né sarebbe stato interessato, egli, sebbene sovrastato, politicamente e giuridicamente, dal divieto di estradizione ( ed eventualmente l’obbligo di avviare il processo in Italia) e dal dovere di asilo?

Anzi dal dovere di tenere chi lo avesse avuto (vd sopra)?

6.1 Saraceni racconta che, in un incontro col suddetto Ocalan in Italia, egli, a lui calabrese avrebbe detto : se n’adda ij, se ne deve andare.
Altri raccontano che l’ esodo di Ocalan dall’Italia sarebbe stato voluto e organizzato da membri del Governo.

7. E così, finita l’ossigenazione politica, tornò l’ipossia….

pietro diaz

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“IL TAGLIO DEI PARLAMENTARI”

Chi avrebbe immaginato che nell’Italia dalla cultura giuridica e costituzionale fra le piu’ feconde e ricche del Globo, che ha materiato la attuale forma dello Stato e del Governo, repubblicana e parlamentare, la molteplicità dei poteri ( parlamento, corte costituzionale, presidente della repubblica, governo. giurisdizione), la loro separazione in vista della distinta ponderazione del comando finale; chi avrebbe immaginato che, li’, sarebbe andato al potere giuridico governativo e legislativo uno, Di Maio, ( per quanto si sappia) totalmente ignaro d’essa, alieno ad essa, inaccostabile ad essa, sebbene promosso dal (suo) popolo?

Nessuno.

Perché se lo avesse fatto, avrebbe anche immaginato la caterva di sfracelli legislativi esecutivi (giudiziari riflessi) socioeconomici etici, che da oltre un anno, ad opera del suddetto (se’ movente in “arte” manifestamente non sua) funestano ammorbano affliggono il Paese.

Ma comunque non avrebbe immaginato che costui , rappresentante del popolo in Parlamento, (ha detto) “per risparmio di spesa” nazionale (50milioni anno! Stima Cottarelli..) , si sarebbe dato alla mutilazione di ciò che egli stesso esercita da rappresentante, la sovranità del popolo.

Cioe’, meno popolo al potere legislativo, quindi al potere esecutivo, da quello espresso, quindi al controllo legislativo del potere giurisdizionale, da quello espresso, quindi al potere di rappresentazione della unità del Paese (il presidente della Repubblica), da quello espresso, quindi al potere di giudizio costituzionale sulle leggi, da quello (in parte) espresso.

Cioè meno potere al popolo, da uno che rappresenterebbe la sovranità del popolo!

. Perche’ non avrebbe immaginato che costui, con la sua presenza non altro che materiale, in quella cornucopia di frutti immateriali della civilta’ giuridica grecoromanoitalica (invero, ad espulsione automatica degli importuni, stavolta tuttavia inerte), sarebbe andato a sfiancare giuridicamente, con lo strumento dell’art. 138 cost, quella sovranita’.

Una sovranità non rappresentabile che nella misura quantitativa e (quindi) qualitativa stabilita dalla Costituzione (rivoluzionaria della sua precedente assenza), in 630 deputati e 315 senatori.
Cioe’, in un rapporto d’essi alla popolazione (nella media degli Stati UE all’incirca), che fosse il minimo per la intercomunicabilità del mandato elettivo.
Una misura ovviamente sorretta da una legge elettorale esclusivamente proporzionale, che raccogliesse in Parlamento ogni parte (ogni!) del popolo, così che ‘ questo, tutto, vi presenziasse.

Tanto che la Costituzione, alla messa a regime dei suoi poteri (tutti i suddetti tranne il giudiziario perché non elettivo), quella legge materialmente adotto’.
D’altronde avendola implicitamente enunciata nell’art. 48 in rapporto all’art 1.
Talmente, che a seguito dei tradimenti d’essa dai mattarelli porcelli e via crescendo in infedelta’ alla Costituzione, la Corte costituzionale (in anni recenti) ne ha reso esplicito l’implicito, attestandone la presenza, e la sua primazia quasi assoluta.

Ebbene costui, nella sua consistenza antropica, di quella misura ha avuto che dire; quella misura, la minima congruente al fine (cennavasi), si è posto a rideterminare.
Per di più profittando di una rappresentanza che all’esito della sua opera si appresta ad irridere.

In forza quindi di una rappresentanza, della sovranità popolare (che portandosi al di sotto dei valori di effettivo esercizio) si sopprimerebbe da sé.
Con l’inimmaginabile esito, storico, per il quale, la rappresentanza parlamentare della sovranità popolare, piuttosto che essere soppressa, secondo il modello tipologicamente fascista, si sopprimerebbe da sé.
E sempre da sé riporterebbe fascismo, dei rapporti fra sovranità dello stato e sovranità del popolo, anzi neofascismo, per la importanza della innovazione nella soggettività agente.

Innovazione peraltro del tutto originaria ed originale. Tanto quanto fu originale il fascismo italiano, allorchè precedette l’hitlerismo il franchismo il salazarismo (e gli altri contemporanei e successivi Ismi del mondo, della risma dei politicanti mattatori dei popoli).

D’altronde è la prima volta che, al seguito (già impensabile) del suddetto, tutti (tutti) gli schieramenti politici del parlamento si accingerebbero a confluire in unico schieramento, per il voto al “taglio dei parlamentari”.

Ma se così sarebbe:

Tutti i partiti già “partito unico”?

E “il partito unico”, in rappresentanza del popolo si appresterebbe a destituirlo dalla sua sovranità?

In altre parole, il popolo per via dei suoi rappresentanti starebbe per abdicare al titolo di sovrano?

Al titolo inabdicabile, per art 1 della Costituzione, sebbene davanti ad esso l’art 138 cost. brandito per l’occasione, dovrebbe arretrare, come farebbe per la “forma repubblicana” (art 139), della quale la sovranità del popolo (art 1) è nucleo fondante?

Essendo stato possibile l’avvento del suddetto al potere politico generale, tutto è possibile…

Pietro Diaz

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CASALEGGIO A NEW YORK


Casaleggio in scenario ONU, al quale è arrivato offrendo i benefici delle società private (Casaleggio e Associati e Rousseau, delle quali è titolare a vita) che hanno ispirato e che basano il Movimento pubblico Cinquestelle, al suo “capo politico” Di Maio, che ha offerto in cambio i benefici della carica di ministro degli Esteri ( e del Commercio con l’ Estero) italiano, che ha accreditato quella presenza.

Scenario al quale, quindi, è arrivato furbescamente mescolando, d’ intesa col ministro. potere privato e potere pubblico, sebbene siano immescolabili materialmente eticamente giuridicamente …

Costui dicevasi, quale multiforme e multivalente:

Fan dei Cinquestelle

Procacciatore mediatico del loro elettorato

Mentore regista ed organizzatore dei “portavoce” d’esso in parlamento e al governo

Produttore e profittatore dei loro successi politici, essendo le sue società immedesimate funzionalmente propagandisticamente simbolicamente in essi

Detentore esclusivo del potere di interrogazione dell’elettorato fuori dell’urna ufficlale, nell’urna Rousseau, ove oracolari e misteriosi (geneticamente e contenutisticamente ) responsi hanno l’ultima parola (extraparlamentare extragovernativa extraufficiale extraistituzionale) su cruciali questioni e ragioni di Stato (si pensi al responso Rousseau sulla fattibilità del Governo 5 St PD, lo scorso agosto …)

Sommo affidatario, quindi, delle sorti del Paese, quante volte il “Movimento” ereditato dal padre (“gianroberto”) possa, per primazia politica “democratica)mente” acquisita, condizionarle

Titolare per ciò di potestà eccedente quella di ogni altro sistema politico costituito nel Paese

Potere supremo, per ciò, nel Paese, (per tanta eccedenza) non lontano dal conseguire attributi di maestà

Con ciò e per ciò costui, a New York in aura ONU, ha potuto proferire:

«Come ho detto in passato, l’auspicio è che la forza politica con la quale il Movimento collabora attualmente si riveli più affidabile della precedente».

Dove:

il Movimento sarebbe posto allo snodo dinamico di tutti i movimenti degli schieramenti politici nazionali.

In tale sobria posizione, di volta in volta opterebbe, fra questi, i “collabora(tori)” alla propria attività di governo.

Emetterebbe giudizi sulla loro affidabilità e li sostituirebbe se negativi.

Immune (completamente) dalla loro inaffidabilità, sarebbe lì per giudicarla e mondarla.

Pernio, quindi, della attività politica collettiva e complessiva nazionale, mai contaminato da essa, maestatico la gestirebbe.

D’altronde il Movimento, che non sarebbe “né di destra né di sinistra” – e che quindi, per fatalità geometrica, non potrebbe che stare al centro-, tuttavia non starebbe nemmeno qui.

In virtù della sua trascendenza, starebbe in un altrove mai coercibile, abitato da superiori creature.

Ebbene, ciò ha diramato Casaleggio da New York.

Dove, nella rappresentazione della sovraordinazione del Movimento alle parti politiche terrenamente contendenti, è evidente il furbesco tentativo di ripulirlo dalle impurità delle durature tresche con la Lega, l’aggregato di popolo più genuinamente razzista e fascista, più effettivamente nemico alla società italiana come costituzionalmente delineata.

Ed è quindi evidente la volontà di mentire l’ identità intrinseca del Movimento del quale, dopo quattordici mesi di attività di governo nazionale convintamente razzista e fascista, Casaleggio dà a bere che avrebbe cessato di esserlo…

pietro diaz

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IL CAPITANO (della riserva) BOLSONARO: L’AMAZZONIA E’ MIA, NON DELL’UMANITA’

1. Alle elezioni 2018 per la presidenza della repubblica federale del Brasile, cui partecipa, candidato dalla estrema destra, il capitano dell’esercito brasiliano di origine italiana, Jair Messias Bolsonaro, partecipa anche Luiz Inàcio Lula da Silva, candidato dalla sinistra popolare e lavoratrice (partido dos Trabalhadores, già al governo dal 2003 al 20011), che è ritenuto in vantaggio da quasi tutti i sondaggi.
Senonchè, a malgrado d’essi, la presidenza è conseguita da Bolsonaro. Come mai?
È accaduto che, poco prima del confronto elettorale, Lula è estromesso, arrestato con accusa di corruzione (la sua candidatura sarà assegnata ad un altro del medesimo partito, invano).
Chi lo ha arrestato?
Tale Sergio Moro, giudice di prima istanza a Curitiba ( che vanta di ispirare la sua opera, di bonifica del ceto politico dalla corruzione, all’italiano Antonio Di Pietro…).
Di che sarebbe consistita la corruzione?
Lula avrebbe avuto in dono un appartamento al mare ( primo processo) e in dono la ristrutturazione di un appartamento in campagna per 30 mila euro ( secondo processo).
Egli si dichiara innocente e non solo obbietta la mancanza di prove, ma adduce prove della infondatezza della accusa. Mostranti che l’appartamento al mare mai fu suo, ma della società “corruttrice”. Al pari dell’appartamento in campagna, in proprietà di un amico.
D’altronde, a siffatte prove, l’accusa oppone non altro che, Lula, sarebbe stato visto una (!) volta entrare nell’appartamento al mare, e varie volte entrare in quello in campagna ( non in visita all’ amico?!).
Lula nondimeno sarà, in seguito, condannato a dodici anni di reclusione in ciascuno dei processi. E sarà tenuto in stato di arresto.

2. Formatosi il governo brasiliano, improvvisamente vi compare il giudice S. Moro quale ministro della Giustizia.
Bolsonaro e Moro non han voluto (nemmeno) prevenire l’inevitabile sospetto che si fossero scambiati i favori della elezione alla presidenza e della nomina a ministro della giustizia, apprestando l’arresto di Lula? Evidentemente.
Ma allora, per tanto audace indifferenza a quell’elementare cautela ed alla credibilità dello scambio, è assai probabile che siano stati capaci di questo, e di un retrostante complotto in danno di Lula.
D’altronde non erano in gioco soltanto vanità e privilegi personali. In gioco erano anche, e anzitutto, il confronto, e la vittoria, politici, fra la sinistra popolare e lavoratrice e la destra della specie più determinata, militare, violenta.
Dal nazionalsovranismo talmente morboso da eccitare Bolsonaro ad avanzare, in Consesso ONU:
l’Amazzonia non è patrimonio dell’umanità, l’ Amazzonia è del Brasile (che sta per: è mia, con ogni sua specie vegetale animale umana, indigena, prossima all’incenerimento fra i roghi che divorano la Foresta).
Egli (!), capitano dell’esercito brasiliano istruttore e cultore di “educazione fisica” , nemmeno Generale né colonnello, a differenza dei suoi – immediati e mediati- predecessori al vertice del più sanguinario mattatoio dell’ umanità soggetta, che nel secolo passato sia stato in America Latina.

3. Senonchè, ciò che era apparso assai probabile (scambio di favori fra i due e complotto contro Lula) oggi pare certo.
Per quanto riferito in cronaca (da A. Nocioni: giu. 2019), il sito americano The Intercept (diretto dal giornalista statunitense Gleen Greenwald), è entrato in possesso di alcune intercettazioni di conversazioni fra i magistrati dei processi a Lula, le quali segnalano che questi, sovraintesi da S. Moro, lanciando l’operazione Lava Jato (Autolavaggio) avrebbero cospirato e agito per impedire la vittoria della sinistra sulla destra, alle elezioni suddette.
Le conversazioni espongono collusione e concerto fra accusatori e giudice (S. Moro), ammissioni in privato, da quelli, della mancanza di prove delle accuse; l’ “abuso politicizzato dei poteri della magistratura” e ” una motivazione politica e ideologica a lungo negata” (commentano i giornalisti inquirenti).
Nelle conversazioni tra S. Moro ed il coordinatore della pubblica accusa Deltan Dallagnol, oltre innumerevoli scambi di informazioni su quanto essi facessero, appaiono direttive del primo al secondo, su cosa dovesse fare e non fare; su come colmare le lacune probatorie, correggere strategie ed errori. E risuonano esultanze per il successo mediatico e le ricadute politiche dell’inchiesta: “complimenti a tutti noi” (per la decapitazione del partito di Lula nella competizione elettorale etc.)

4. La legge brasiliana vietava al giudice siffatte intromissioni nella formazione accusatoria dell’oggetto del suo futuro giudizio.
Tanto che l’art 254 del codice processuale brasiliano consente ai condannati per esse, di qualificare il giudice “sospetto di non essere imparziale».
E di chiedere l’annullamento della condanna.

5. Ciò che la difesa di Lula ha iniziato a fare, contro il giudice che si ispirava ad Antonio Di Pietro….

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IN ATTESA DELLA IMMINENTE SENTENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE ” SUL FINE VITA”

Così annunciata tematicamente dai media nazionali, e dalle loro fonti (politiche parlamentari governative, opinionali): “sentenza sul fine vita” :

lo è stata palesemente “fuori tema”.

Perché:

1.La sentenza concernerà il reato di aiuto al suicidio, uno dei reati, con la istigazione e la determinazione (al suicidio), in art 580 cp,

Aiuto che, inerendo il suicidio, cioè il fatto di chi si dia la morte (da sé), nulla ha che vedere col fatto di chi, moribondo o (certamente) morituro, da altri riceva la morte:

o per arresto della somministrazione dei mezzi (chimici, meccanici…) del suo differimento;

o per somministrazione di mezzi della sua anticipazione (entrambi i casi sono concepibili come “eutanasia”: non ritardare o dare “dolce morte” al moribondo o morituro).


1.1 Nulla ha che vedere, dicevasi, col suicidio, che può concernere, certo, il moribondo o il morituro, ma anche il vivente nolente vivere; o perfino bellicosamente volente uccidere (il kamikaze, l’omicida-suicida dei “femminicidii”, etc).


E ciò per un fatto essenziale, ripetesi, perchè nessuno a costui dà la morte (per omissione o per azione); egli se la da’.

Attua egli, causalmente, il passaggio dalla vita alla morte.

Egli, sufficientemente dal lato materiale, pur se vi fosse istigato, o determinato, o aiutato.

Pur se fosse scortato, cioè, dalle condotte (tutte dolose: volontarie e finalizzate) punite dall’art 580. Le quali quindi sarebbero certamente concausali, ma insufficienti a dare morte.


1.2 Ed è, dicevasi, la condotta di aiuto al suicidio, non altra o altro, a giudizio della Corte Costituzionale. Un fatto che nemmeno essa può cambiare o modificare, sulla quale quindi soltanto potrà e dovrà decidere. Perché esso è il tema propostogli dalla Corte di Assise di Milano, tema quindi vincolato e vincolante, anche per il principio, sulla decisione giudiziaria, della immancabile correlazione “fra chiesto e pronunciato”).


2.D’altronde quel tema è del tutto coerente al caso che lo ha suscitato.

Il caso di (tale) “DGFabo” il quale, a causa di un sinistro stradale gravemente infermo e irreversibilmente e insopportabilmente sofferente, deciso a porre fine al suo stato, consulta i Radicali Marco Cappato, Lina Welby e altri. .

Questi (del giro politico del “suicidio ed eutanasia liberi!”)” prospettano la pratica della “sedazione profonda”, consistente della sospensione dei supplementi respiratori e alimentatori e della attesa della morte dolce ( gli prospettano eutanasia, dove la propria morte, voluta , è da altri indotta: come cennavasi) .

Egli tuttavia opta per il suicidio (dove la propria morte, voluta, è da sé indotta: come cennavasi), con modalità (anch’essa) dolce, eu, da eseguirsi in un Centro svizzero opportunamente attrezzato.

Intercorsi contatti e intese fra questo ed i familiari del “DJ”, Cappato ve lo conduce in automobile.

Ivi condotto, accuratamente accertata, dagli esperti del Centro, in lui, la persistenza della volontà del suicidio, gli è consegnato un farmaco letale, perché, da sè esclusivamente, eventualmente, lo assuma. Ed egli lo assume,


2.1 Cappato, che aveva pubblicamente vantato di agire per “disobbedienza civile”, (con L. Welby) è accusato di “rafforzamento dell’altrui proposito di suicidio” e di “aiuto al suicidio”.

Prosciolto dalla prima accusa, è rinviato a giudizio sulla seconda, davanti la Corte di Assise di Milano. Per rispondere, appunto, del reato di cui all’art 580 del codice penale.


3. Che cosa avrebbe potuto (e giuridicamente dovuto) fare la Corte?

Se avesse voluto (in tesi) tutelare fan delle libertà (fra cui quella) di suicidio ( i suddetti Cappato e Welby), con adeguata perizia distinguendo:

fra aiuto che non arriva, alla fase della esecuzione del suicidio ( Cappato, ha condotto “DJFabo” al Centro svizzero, non vi è entrato, non è andato oltre..);

e aiuto che vi arriva (quello di chi ha consegnato a “DJFabo” il farmaco letale per la assunzione):

la Corte avrebbe potuto escludere che l’”aiuto” di Cappato fosse causa del suicidio. E quindi che fosse punibile.

Di fatti, per una teoria causale bastantemente meditata, se è causa (immediata) della morte l’assunzione del farmaco letale (e ovviamente questo), è causa (mediata) anche la consegna d’esso.

E qui si colloca l’aiuto al suicidio,

Che non risalirebbe quindi all’antecedente della conduzione al Centro del “DJ” (o ad altro prima). Il quale per ciò sarebbe “condizione”, non causa, del suicidio.

E ciò alla stregua di una lettura plausibile degli artt 40,41 del codice penale.


3.1 D’altronde, se così non fosse, ogni condizione, delle innumerevoli precedenti (o accompagnanti) ogni causa, sarebbe causa, con indebita sottrazione di questa al principio di continenza tipologica (cioè già in astratto e a priori) dell’evento (la consegna del farmaco letale è parte della sua assunzione e della morte conseguente).

Laddove l’accompagnamento al Centro non contiene (ancorra tipologicamente) la consegna del farmaco e tanto meno il seguito.

Ebbene con ciò, dicevasi, la Corte di Assise avrebbe chiuso giuridicamente il caso, prosciogliendo Cappato “perché il fatto non è preveduto dalla legge come reato”.

Invece no.

Invece essa si è inoltrata e persa nei meandri eticogiuridici del “fine vita”, schizzandone il ricavo tematico sugli interessati ad esso, più o meno incapaci di discernere il tema effettivo.

Difatti, sebbene:


4. L’art 580 cit. punisca ”istigazione e aiuto al suicidio” (cosi la rubrica della disposizione, che non espone l’intero suo contenuto), ma non punisca il suicidio (pur potendo farlo: tempo addietro, la punizione del corpo del suicida, mediante sfregio o simile, era sancita).

Per ciò, se il suicidio non è vietato (penalmente e civilmente e negli altri rami del diritto nazionale), esso è libero.

E’ cioè nel potere di fatto, di chi lo volesse.

E ciò è altro che essere nel suo diritto, altro dall’essere un suo diritto, come la elementare teoria del diritto da tempo insegna.

Per di più, se lo fosse, le posizioni degli altri rispetto ad esso non sarebbero libere (simmetricamente a quel potere di fatto) ma vincolate.

Se lo fosse, gli altri sarebbero obbligati a rispettarlo, nessuno potrebbe, né dovrebbe (art 40.2 cp), impedirne l’esercizio.

E ove ciò fosse, (forse anche ) l’istigatore al suicidio, (certo) il rafforzatore del relativo proposito, e comunque l’agevolatore o ausiliatore del suicidio, cooperando all’esercizio di un diritto, sarebbero punibili tanto quanto il suo titolare (come si è visto non punito)!

Per cui, la presupposizione, alla eccezione di illegittimità costituzionale sollevata dalla Corte (vd dopo) , del “diritto al suicidio”, condurrebbe logicamente alla illegittimità costituzionale dell’intero art 580 cit….!

Certo contro la volontà dell’eccepiente.

Tuttavia la Corte:


4.1 Ritenuta (sostanzialmente) la configurabilità del “diritto al suicidio”, a conclusione di un lungo discorso (qui sintetizzato al massimo) dalle implicazioni logiche non sempre controllate, nel quale:

– la inviolabilità della libertà personale posta in art. 13 Costituzione darebbe anche libertà di suicidio (cioè darebbe libertà di violare l’inviolabile, sia pure dal suo titolare?!);

– il “diritto alla vita” (art.2) della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, darebbe anche diritto di ucciderla (cioè darebbe “diritto di morte”, sia pure per il suo titolare?!);

– il “diritto a morire” rifiutando i trattamenti sanitari (recentemente introdotto da L. n. 219/2017) sarebbe “diritto al suicidio” (laddove, regolando la morte da altri indotta, l’eutanasia, nulla ha che vedere con la morte da sé indotta, il suicidio!).

Ritenuto quindi, si diceva, il “diritto al suicidio” quale parte del “diritto vivente” (adduce la Corte, anche in forza della inversione storica della base culturale della disposizione “fascista” che apertamente lo disconosceva) .

Ritenuto inoltre che, vietato a chiunque di “istigare” al suicidio o di “rafforzarne il proposito”, ne è vietato l’”aiuto” che fosse anche istigazione o rafforzamento, ma non quello che non lo fosse!

In altre parole, la Corte ha reso l’aiuto istigazione (o rafforzamento), malgrado, essi, nell’art. 580 cit., siano alternativi.

Siano posti cioè a dilatare l’area del divieto, non a contrarla (laddove la Corte la contrae fino ad espellerne ogni forma di aiuto che non fosse istigazione o rafforzamento….).

Ritenuto infine che, la contrazione della nozione di aiuto, non sia conseguibile in via di interpretazione dell’art 580 cit. (ma sub 3 si è mostrata la possibilità del contrario) ed esiga l’intervento della Corte Costituzionale (che la permei di “diritto al suicidio”, “diritto alla vita”, “diritto a morire” e via dicendo…”(la Corte, peraltro, nemmeno avverte che il “diritto” di cui farcisce il discorso ha incidenza puramente oratoria, non sulla realtà del suicidio, la quale, per quanto sub 4 visto, è interamente composta di stati fattuali di libertà, non giuridici di “diritto”). La Corte, d’altronde, non distingue minimamente tra volenti suicidio necessitato, quello di “DJ Fabo” – che potrebbero ricevere eutanasia per legge 219 cit.- e volenti suicidio “discrezionale” – che egoisticamente potrebbero disperdere un bene sociale, contro il dovere di solidarietà sociale in art 2 Cost.-..

Ebbene, tutto ciò premesso:

4.2 essa ha rimesso la questione alla Corte Costituzionale, indebitamente spogliandosene, perché avrebbe potuto e dovuto risolverla interpretando la legge penale, senza neppure sfiorare quella costituzionale (la Corte ha aggiunto anche un altro profilo di incostituzionalità, la parità delle pene della istigazione e dell’aiuto, senza avvedersi della inconciliabilità dei due profili, giacchè il primo punta ad escludere, il secondo ad includere, l’aiuto “non istigatorio né rafforzativo”!).


5. A questo punto, non resta che attendere la decisione del giudice delle leggi.

pietrodiaz

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EFFETTI VARII, SULLE REGOLE DEI PARTITI E DELLE ISTITUZIONI, DELLE RECENTI MOSSE DI UN ATTORE POLITICO

1.Renzi M., da senatore eletto (2018) nel pd dall’elettorato del pd quale candidato dal pd, perché fosse operatore politico e istituzionale del pd, raccolta una quarantina di parlamentari eletti nel pd dall’elettorato del pd quali candidati dal pd perché fossero operatori politici e istituzionali del pd, è uscito dal pd ( è partito dal partito con un suo partito..!).
2. E se il partito è una associazione privata a destinazione pubblica (politica) costituzionalmente riconosciuta (art 49), quella uscita, certamente, marca una rottura del patto associativo privato e pubblico (politico).
Essa, peraltro, è sanzionabile privatisticamente e pubblicisticamente (alla stregua della lesione delle funzioni politiche del partito, statutariamente in ipotesi articolate). Ma non è questo che qui interessa.
3. Il pd fu chiamato alla opposizione, a seguito della formazione parlamentare della maggioranza governativa (“gialloverde”), a giugno dell’anno passato.
E lo fu anche Renzi, con i parlamentari della accolta.
E fu chiamato, il pd, alla formazione parlamentare della maggioranza governativa (“giallorossa”), ad agosto di quest’anno.
E lo fu anche Renzi, con quei parlamentari.
Fu chiamato alla opposizione e alla maggioranza, il pd, oltre che dal parlamento e dal governo, inoltre, dal suo elettorato, per ogni altra eventuale opposizione e maggioranza della legislatura decorsa e corrente, alla stregua delle vicende parlamentari.
E lo fu anche Renzi, con quei parlamentari.

L’ uscita dei quali dal partito, quindi, porta elusione delle eventuali altre opposizioni e maggioranze, del pd, nella legislatura ventura.
E porta evasione dalla attuale maggioranza governativa. E dalla contesa politica con la sua opposizione.
Porta quindi, oltre che evasione dalle determinazioni del partito e della associazione sottesa, evasione dal mandato elettorale generale e particolare,

L’uscita di Renzi con quei parlamentari, stavolta, quindi, oltre che il patto associativo privato e pubblico, ha rotto il patto elettorale.

Inoltre.

4. Quale senatore del pd e leader di quei parlamentari, Renzi, come ha integrato l’opposizione in parlamento, l’anno passato, cosi’ ha integrato quest’anno la maggioranza parlamentare e governativa.
Ha integrato questa, fino al punto di conferire alla formazione del governo da essa espresso. E fino al punto di collocarvi alcuni ministri ed alcuni sottosegretari, tutti (salvo errore) fra quei parlamentari.
Perciò, quale membro del pd, con quei parlamentari membri del pd, ha partecipato alle “consultazioni” ( dei gruppi parlamentari e di altri) richieste dal presidente della repubblica al presidente del consiglio da lui (re)incaricato.
Perciò ha (co)determinato l’esito delle “consultazioni” sulla formabilità del governo, poi trasmesso dal pdc al pdr.
Ha quindi interagito direttamente col pdc, indirettamente col pdr, (co)inducendoli a ritenere la formabilità del governo e della maggioranza parlamentare relativa.
Ha quindi (co)formato il governo e la sua maggioranza, “giallorossi”, quale membro del PD. Inducendo ad un tempo il pdc a proporre ministri, fra quei parlamentari, al pdr, e questo a nominarli, inducendoli inoltre a nominare sottosegretari fra i medesimi.

Ha cioè assunto istituzionale impegno di fedeltà all’opera di formazione del governo, del pdr col pdc. All’opera di esercizio del governo, col pdc. Ed all’opera del pd di mantenimento della maggioranza e di sostegno del governo.
Perciò, questa volta, la sua uscita dal partito, con quei parlamentari, (si noti) dopo la conclusione di tali opere (e la assicurazione di quelle future), ha rotto le intese istituzionali, oltre che col segretario del pd, col pdr e col pdc.
E ha rotto inoltre le aspettative di fedeltà ad esse, nutrite dal partito 5 st., coformativo della maggioranza parlamentare, del consiglio dei ministri, del suo sottosegretariato,
con Renzi dentro.
Ed ora nondimeno fuori con un suo partito.
Fuori da terzo estraneo e tuttavia intraneo.
Ad intaccare il colore “giallorosso” del Governo, con altro (finora oscuro).
Oltre che l’identità associativa e politica dei partiti della maggioranza parlamentare, e di quelli (gli stessi) del governo.

Ebbene

Almeno una domanda a Renzi andrebbe posta:
ha avuto consapevolezza della (assoluta) irregolarità politica e istituzionale delle sue mosse, e dei suoi effetti?

pietrodiaz

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LA “INDENNITA” DEI PARLAMENTARI

1. L’indennità non è retribuzione corrispettivo stipendio salario compenso introito reddito guadagno. Essa e’, giuridicamente ed economicamente, ciò che rende indenne (letteralmente: senza danno diminuzione perdita patrimoniali) dai costi di una prestazione chi la fornisse. E che lo fa rimborsandoli.
L'”indennità” e ciò che prevede testualmente l’art. 69 della Costituzione. Per quanto detto, a rimborso del costo della prestazione parlamentare a chi la svolga. E inoltre a liberare la prestazione stessa, in chi il suo costo non potesse accollarselo.
D’altronde la sua origine e’ illustrativa.
Esclusa con l’art 50 dallo Statuto Albertino (1848- 1946) per i deputati e per i senatori, nel 1912, a seguito della elezione (democratica) di un portuale di Sanpierdarena, che per risiedere a Roma avrebbe dovuto dormire sui treni (lo avevano fatto altri), e “mendicare” per cibarsi, essa fu introdotta.
E mantenuta nei sopra visti limiti funzionali (fino alla soppressione fascista del Parlamento..).
Alla redazione della Costituzione repubblicana (ripristinante il Parlamento), il tema se essa stessa dovesse prevederla’ (anche per imporla ad altre norme, inferiori, che la escludessero o che la snaturassero) fu assai dibattuto da politici e giuristi (di rango).
Ed essi giunsero alla sua previsione (in art 69), pur senza esplicitazione dei limiti funzionali:
perché ritenuti impliciti alla storia dell’istituto (quella di Pietro Chiesa, il portuale suddetto); perche’ conformi all’etica politica; e comunque perche’ giuridicamente intrinseci alla nozione.
Dunque, indennita’ per liberare la prestazione parlamentare, veicolo della rappresentanza popolare, coprendone i costi.
Ma anche perche’, si noti, la prestazione, non liberasse lucro (arricchimento personale).
Sia perché questo avrebbe escluso la rappresentanza dell'”avere” medio dei rappresentati, e perche’ avrebbe indotto esso stesso diseguaglianza.
E sia perche, liberato che fosse (per di più in dimensione massiva di ceto), avrebbe sottomesso la prestazione parlamentare.
Cio’ che sciaguratamente e’ avvenuto.
Se ne ha prova, ed esempio, nella recente crisi governativo – parlamentare, ove, le addotte ragioni della permanenza degli eletti in parlamento, variamente nobilitate (con richiami agli interessi del Paese e via declamando), non sono riuscite a nascondere la ragione reale, seppure eventualmente non esclusiva, della conservazione e dell’incremento del lucro (dei prestigi e dei privilegii e degli onori e delle innumerevoli altre grazie del ruolo).
Cioe’, astraendo, quando la ragione politica o partitica spingerebbe allo scioglimento (anticipato) del parlamento, essa e’ rimossa, in vista del lucro piu’ duraturo (quinquennale).
Cio’ d’altronde sale da remoti attriti fra interesse privato e interesse pubblico, al seguito dei quali il primo ha sottomesso il secondo, fin nella sua piu’ alta funzione, quella del parlamento autonomamente legiferante.
Difatti quella funzione, il parlamento, la ha da tempo consegnata al Governo. Alla sua (costituzionalmente usurpatrice) decretazione “straordinaria ed urgente” ( art 77), che esso si limita a convertire in legge senza discutere, “sulla fiducia”.
Dunque la prestazione ha liberato il lucro, in dispregio dell’art 69 cit. (e degli altri dispositivi omotetici della democrazia costituzionale).
Il lucro ha sottomesso la prestazione.
Cio’ ha sabotato i fondamenti costituzionali dell'”Ordinamento della Repubblica” (artt. 55 ss, cost.)
2. Ma che cosa e’ accaduto giuridicamente?
E’ accaduto quel che non e’ infrequente nella confezione delle leggi “attuative” (in effetti traditive: che tradiscono) della Costituzione.
Nel 1965 fu redatta la legge (“ordinaria”, quindi impotente astrattamente a modificare la volonta’ costituzionale) n.1261, sulla infedelta’ della quale all’art 69 basti notare che il “rimborso spese” (peraltro in seguito esteso alle spese, non del parlamentare ma, degli immediatI tramiti fra lui ed i suoi “sodalizii”: i “portaborse”), e’ una delle numerose “voci” ( astuzia del lessico del lucro…) “indennizzatrici” della prestazione.
E che nondimeno e’ altra da quella (propriamente) “retributiva”.
E tutte insieme insieme fanno, del parlamentare, la personificazione dell’arricchimento piu’ inaccertatamente corrispettivo meritato guadagnato faticato sudato, debito, che il regime giuridico generale delle controprestazioni abbia conosciuto.
E non e’ adducibile autonomia normativa delle Camere che possa rimuovere o mascherare cio’.
Tanto meno e’ prospettabile esigenza di ” risparmio” (Di Maio..) che possa eliderlo o giustificarlo.
Ancora meno e’ attuabile risparmio mediante “taglio” (di piu’ di un terzo) dei parlamentari (Di Maio).
Perche’ l’indebito sarebbe raddoppiato. Consolidandosi, da un lato, il lucro dei restanti, da altro “risparmiandosi” (antisocialmente) in democrazia rappresentativa, in rappresentanza della totalita’ del popolo e delle su istanze!
3. Quindi, o si ritorna alla indennita, o è possibile cleptocrazia (prevalenza del latrocinio) e plutofilia (foia per la ricchezza materiale), antidemocrazia della specie della oligocrazia affaristica.
In misura talmente estesa, si noti, da realizzare storicamente un cambio di paradigma.
Dall’elettorato attivo su base censitaria (con lo Statuto suddetto, almeno in origine, solo i dotati di censo erano elettori: in seguito ne fu richiesta anche la alfabetizzazione…! ), all”elettorato passivo ad effetto censitario, cioe’ apportatore di lucro.
In altre parole, non e’ escludibile che la condizione statutaria dell’elettore sia sia convertita (in)costituzionalmente in quella dell’eletto.
E che travaglio storico della democrazia rappresentativa attraverso il modellamento dell’elettore, si sia disperso nella “democrazia” lucrativa dell’eletto.
D’altronde, oggi, “eletto” (che vorrebbe dire ” scelto”..) solo su proposta cooptativa di sospettabili centri di accumulazione e di distribuzione del nuovo censo: le organizzazioni politiche prevalenti.
Pertanto, non resta che aizzargli contro contro l’art 69…

Pietro Diaz

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CONTE E LA NOZIONE DI DEMOCRAZIA


1.Conte presidente del Consiglio dei Ministri, nel discorso di perorazione della fiducia parlamentare al suo Governo, alla Camera dei deputati, ha invocato una “democrazia dal volto umano”.

Come se la democrazia, proprio essa, non avesse dato avvio alla umanizzazione del volto politico delle masse (palesemente nella antica Grecia, latentemente, e forse prima, altrove).

Come se, essa, non fosse succeduta alla Oclocrazia, la caotica condizione politica delle predette.

2. Tuttavia la invocazione aveva il suo fondamento razionale.

Lo aveva nella constatazione della “disumanità” – intesa come incostituzionalità- del “volto” della democrazia, nel luogo e nella occasione stessa in cui essa risuonava.

Allorchè gruppi parlamentari sedenti per votare la fiducia o la sfiducia al Governo già formato (art. 94 Cost), Cioè sedenti esclusivamente per dire si o no ad esso:

sono insorti (brutalmente invero) pretendendo elezioni elezioni….

Elezioni che, come è noto, sono attività di formazione delle rappresentanze (delle istituzioni politiche e ) del parlamento in specie, che suppongono che questo sia sciolto.

Ma questo era tutt’altro che sciolto (dal presidente della repubblica).

Anzi, come risultante della “consultazioni” poco prima svolte dal presidente del Consiglio (re)incaricato, era tanto coeso da essere in grado di produrre una maggioranza atta a fiduciare il Governo.

2.1 Dunque, (del tutto) fuori luogo e assetto funzionale, la pretesa suddetta.

Infatti e per ciò, manifestazione di oclocrazia, il caotico e istintuale antenato della democrazia.

Per di più:

3. Se la ademocraticità sopra assegnata all’accadimento fosse scorretta, lo sarebbe per difetto.

Di fatti, mentre i gruppi parlamentari suddetti insorgevano dentro la Camera, fuori di essa, in piazza Montecitorio, appartenenti ad essi, sotto la direzione “carismatica” dei capi politici (dei partiti di riferimento), e folle di adepti, tumultuavano avanzando la stessa pretesa (elezioni elezioni…).

Cioè la pretesa dei gruppi dentro la Camera concomitava, sinergica, quella della piazza.

Era quindi pretesa (anche formalmente) “di piazza”.

Così univocamente da essere, oltre che fuori luogo e assetto funzionale (come detto), insurrezionale.

O comunque attentatrice di organi costituzionali (la Camera in specie) nell’esercizio della loro funzioni, al fine di impedirlo (solo per esempio esplicativo: art 289.1 n.2 cod pen).

Dunque non aveva torto, Conte, a invocare “democrazia”.

In una condizione politica forse più insidiosa di quella della oclocrazia.

Perché assimilabile a quella (storica e ben nota d’altronde) delle organizzazioni intra ed extra parlamentari ( ad un tempo, per strategia) della destra neofascista.

Pietro Diaz

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SALVINI SULLA “MOTO D’ACQUA” DELLA POLIZIA

Subodorato animalescamente il rischio di essere accusato di “peculato d’uso” (art 314.2 c. p.), per avere fatto proprio (momentaneamente) un veicolo appartenente alla pubblica amministrazione (ma il peculato minore potrebbe divenire maggiore, ben più gravemente punito, se l’uso non fosse stato momentaneo o il veicolo non fosse stato restituito subito dopo esso).

Accusato di quel reato sia che avesse permesso, sia che non avesse impedito (art. 40.2 cp), al proprio figlio, quale conducente o condotto da un poliziotto, di montare una moto d’acqua della polizia di Stato.

E accusato in concorso (artt. 110, 314.2 c.p.) col poliziotto (e col superiore in grado che lo avesse permesso o non lo avesse impedito), che, sebbene affidatario esclusivo della “moto”, vi avesse condotto o accompagnato suo figlio.

E accusato (ovviamente) in concorso col “bambino” (così detto dal “ papà”, capziosamente invocante domestica benevolenza per entrambi): invero, un sedicenne dotato di “capacità penale” (se non esclusa in concreto) per art. 98 c. p. , e quindi anch’egli accusabile di peculato.

Subodorato quel rischio, si diceva, tanto prontamente da avere ordinato, o avere permesso, o non aver impedito, ai poliziotti astanti, di distogliere, seppur mediante violenza corporale e minaccia morale (vagamente “di tipo mafioso” -art 416 bis cp-: “sappiamo dove lei abita…”), un giornalista “ videomaker” presente alla trasgressiva scena, dal farne “ripresa”.

E ancor meno, ripresa, della esibizione (simbolica ) della trasmissione da padre a figlio del potere istituzionale. E della arrogante insensibilità degli operanti, alla intangibilità dei beni gelosamente custoditi dal diritto pubblico.

E subodorato il rischio così lucidamente da ammettere lì per lì (certo in un fugace cedimento) : “mi scuso, errore di papà” (sempre capziosamente invocando domestica benevolenza.. ).

Ebbene costui, riavvicinato dal giornalista mentre esercita, discinto, su un arenile assordato da musica “dance”, il suo ufficio ubiquitario di ministro dell’Interno (stavolta contornato da fan oltre che da polizia ), e interpellato sull’accaduto, risponde:

“non intendo parlare della faccenda”.

Mentre la faccenda straparlava di lui! E per il tramite del giornalista lo invitava (dialetticamente) a dire la sua. Se mai la avesse avuta, la sua, diversa da quel che era parso. .

“Attacchi me non il bambino”.

Ma è ciò che faceva il giornalista! Domandandogli perché non avesse preservato o distolto “il bambino” da quell’indebito non solo giuridico, ma anche civico etico ed estetico.

“Offenda me non il bambino”.

Così, non altro, non di più, giaculatoriamente! Per togliere spazio ad altre domande, e a differenti risposte. Sulla faccenda che, quindi, allontanava da sé, impotente e sleale, col mezzo automatico della arroganza istituzionale.

Tanto che, dopo un po’, appesantito e frustrato dalla propria monotonia, brutalmente è sbottato:

“vada a fotografare i bambini visto che le piace tanto”.

E qui l’impotenza dialettica e la slealtà intellettuale sono corse alla compensazione del fascistoide, di colui che rimuove l’incomodo con l’ insulto verbale (ovviamente disposto anche, all’occorrenza, a rimuovere l’avversario con l’ insulto fisico), fra i più alla moda e cocenti del lessico poliziesco: quello di “ pedofilo” voyeur. Nel senso di fruitore , se non di “produttore” (art 600 ter cp) di “pornografia minorile”, di colui che goda (se non attui “producendole”) riprese di atteggiamenti o simulazioni di minori di anni diciotto a ciò preparati.

Materia che il ministro ben conosceva.

Dato che il suo partito, con altri dell’auge legislativa berlusconiana in coalizione fra le più ineducate e diseducative della “seconda repubblica”, a preservazione dei minori da sessualità “diseducative” , ha previsto reati di “pornografia minorile” (in artt. 600 ter ss. c.p., sebbene già repressi, ma, si disse, clementemente e insufficientemente, dalla legge sull’Osceno in artt 527 ss. c.p.).

E lo ha fatto con tale ossessione della inibizione della sessualità del minori, non solo da punire (non essi ma) i realizzatori e produttori e distributori e diffusori e mercatori e detentori e contemplatori etc., delle relative immagini, del “materiale pornografico” (art. 600 ter cit.-). Ma da fare a meno d’essi, da prescinderne totalmente, cioè da non preservarli nemmeno indirettamente (punendo quelli).

Poiché è giunto a colpire (in art. 600 quater c.p.) la “pornografia virtuale”.

Per la quale non occorre che il minorenne disegni pornografie in carne ed ossa, basta che lo faccia nella fantasia esclusiva del disegnatore.

Facendolo In ossessione talmente accecante, da nemmeno avvertire, laicamente, di colpire il “peccato”, quell’evento tutto interiore trasgressivo di un divieto, quella entità (solo) moraleggiante che l’evoluzione storica del diritto penale ha inteso separare dal reato quale evento tutto esteriore.

E di colpirlo con reclusione fino a dodici anni. Pena pari a quella del reato di “violenza sessuale”, estrinseca e carnale. Pari a quella di taluni omicidii.

A sanzione di una sessualità puramente mentale, Da fondamentalismo penale .di tipo religioso.

Tutto ciò, peraltro, senza considerare l’indotto. Del rischio della proliferazione del voyeurismo pedofilo dalla legge indirizzata al suo annientamento!

Perché la predisposizione legislativa degli strumenti per la ricerca della prova dei reati di pornografia minorile, mediante ispezione e visione d’essi, e la pubblicazione intra ed extra processuale dei loro risultati, certo sono rimaste indifferenti al rischuio della collettivizzazione del voyeurismo “pedofilo”.

Dunque Salvini era posseduto da quella ossessione, e da quella improntitudine giuridica, allorchè rivolgeva il sulfureo invito al giornalista.

Tuttavia impressiona che abbia supposto minorenni in atteggiamenti sessuali “da ripresa”, nel luogo frequentato da lui e dal “bambino”…

Pietro Diaz

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CONTE E MORO, SECONDO SCALFARI ANALOGICO E METAFORICO, MA NON SILLOGISTICO…

Poichè:

Conte è pugliese e professore di diritto, Moro fu pugliese e professore di diritto:

Conte vale Moro!

Lo ha raccontato a sé stesso Scalfari. Ma lo ha anche diffuso, a propaganda manutentiva del governo più bruto e brutale, più volgo e volgare, più analfabeta e analfabetico della storia della repubblica.

E certo non ignorando che le coppie (aggettivali) “pugliese” e “professore di diritto”, pur congiungendo analogicamente i due, se dicevano delle appartenenze regionali e accademiche, nulla dicevano, potevano dire. del valore e ruolo, individuale etico sociale politico, di ciascuno. Tanto meno storicamente.

E che quindi non permettevano (anzi vietavano) di desumerlo.

Di fatti, per assimilare i due nel valore, Scalfari si è esibito in un temerario salto acrobatico ( da quelle coppie, alla conclusione Conte è -come- Moro) , aggiungendo, alla analogia, la metafora (la figura retorica che, a differenza della precedente, non teme di assimilare termini – Conte – Moro- indipendentemente dal rapporto di interiore uguaglianza fra essi).

E lo ha fatto certo di poterne rifilare il risultato ad un uditorio supposto retoricamente suggestionabile, ingannabile. E poco è stato smentito, invero, a stare alle reazioni dei suoi lettori.

D’altro canto, si è ben guardato dal dare forma sillogistica ai suoi fantasiosi ( e faziosi) esercizi di logica e di retorica.

Perché avrebbero dovuto, essi, spudoratamente:

formulare il “termine maggiore”: tutti i pugliesi professori di diritto sono (come) Moro!

Innestargli il “termine medio”: Conte è pugliese e professore di diritto.

Farne conseguire il “termine minore”: Conte è (come) Moro!

E sebbene la conclusione sarebbe stata perfettamente logica, tuttavia il “termine maggiore” sarebbe parso falso (oltre che risibile) immediatamente. Assai prima delle figure argomentative precedenti.

Manifestamente falso, cioè senza necessità di andare a vedere, necroscopicamente, se il cadavere dell’immenso Moro, udendo il paragone a Conte, si rivoltasse nella tomba. Sarebbe bastato leggerlo, per constatarlo.

E fin da Aristotele, il sillogismo conduce al vero se è vero il “termine maggiore” ( e ad esso coeriscano il medio e il minore).

Se non, conduce al falso.

Da tale scandalosa mostra, Scalfari, ulteriormente mistificando e ingannando, si è ritratto.

Pietro Diaz

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Salvini e le leggi sulla integrità personale dell’accusato

1. Per art 13 Costituzione “è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà” ( disposizione programmatica generale, concernente ogni persona in potere di polizia giudiziaria, pubblico ministero, giudice: la persona in ogni stato e grado del processo a carico).
D’altronde per art 608 cod pen “il pubblico ufficiale che sottopone a misure di rigore non consentite dalla legge una persona arrestata o detenuta di cui egli abbia la custodia anche temporanea” è punito con reclusione. D’altronde per art 610 cod pen, chi costringa “con violenza altri a…tollerare…” (anche una postura o un attrezzo, le manette, la benda agli occhi) è punito con reclusione.
D’altronde per art 572 cod pen, chi “maltratta un persona …sottoposta alla sua autorità….o custodia…’ è punito con reclusione.
D’altronde per art 605 cod pen, chi compia restrizione (aggiuntiva: ammanettando, bendando gli occhi) della libertà della persona non libera di evadere da uno spazio circoscritto ma libera entro esso, è punito con reclusione.
D’altronde per art 613 bis cod pen, “tortura” chi agendo “con crudeltà…” infligga trauma psichico…” o chi comunque infligga “un trattamento degradante per la dignità” a “persona privata della libertà personale”. Ed è punito con reclusione. Va ricordato che il divieto di tortura e di trattamento degradante (o “inumano”) della persona fu prima (1948) affermato da art 5 Dichiarazione universale diritti umani. Poi (in Italia 1955) da art 3 Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.

2. D’altronde per artt 2043-2059 cod civ è obbligato al risarcimento di ogni danno alla persona ( o sue cose) chi lo abbia cagionato commettendo un fatto ingiusto.

3. D’altronde per art 188 cod proc pen “non possono essere utilizzati neppure con il consenso della persona interessata metodi e tecniche idonei ad influire sulla libertà di autodeterminazione o ad alterare la capacità di ricordare e di valutare” (accecamento con bendatura, costrizione a sedere ammanettato dietro spalliera e schiena, inibizione a percepire il circostante l’incombente l’imminente, le intenzioni di chi abbia imposto la condizione, oltre che atterrire, sopprimono coscienza e autodeterminazione). D’altronde per art 64 cod proc pen, riaffermato (testualmente) il divieto in art 188 cit., è aggiunto che all’interrogatorio ( di PG, di PM, di Giud. ), pur se irrituale (o che facevano o tentavano di fare le Divise del noto fotogramma: esercizi di puro sadismo?) l’accusato si presenta “libero nella persona”. Vuole altrettanto l’art 474 cod proc pen, sullo condizione dall’accusato a dibattimento (interpretativamente: è “libero nella persona” chi non abbia addosso strumenti limitativi: manette, benda …).

4. D’altronde per art 386 cod proc pen, la polizia giudiziaria che abbia taluno in stato di arresto o di fermo (oltre che dargli la più estesa informazione sui diritti difensivi), lo pone “a disposizione del pubblico ministero” (del luogo ove l’arresto o il fermo siano stati eseguiti) “mediante conduzione nella casa circondariale o mandamentale” (di quel luogo), salvo che il magistrato disponga che egli sia custodito altrove (a domicilio ….). Dunque l’americano non era detenibile nella caserma, comunque non lo era nella condizione di cui al fotogramma spettacolarizzato dal suo detentore (che avrebbe potuto lecitamente scattare una sola foto, quella segnaletica…).

5. Ora Salvini che lo riproduce nei suoi media rispettacolarizzando la mortificazione dell’americano in palese ritorsione (per ora iconica) del suo malfatto (il presunto concorso nell’accoltellamento del carabiniere).
Che quindi mima il comportamento delle Divise e lo accredita culturalmente.
Mentre, ministro dell’ordine e della sicurezza pubblici, ignora che questi interessi (oggetto funzione e scopo del suo ministero) si nutrono, concettualmente e operativamente, (anche) della mole di materia normativa sopra esposta.
E quindi ignora che ogni discostamento dai precetti d’essa (espliciti ed impliciti) è illecito, illecito penalmente (oltre che civilmente).
E quindi ignora di stare da nomoclasta (devastatore di norme) nell’’ordinamento giuridico e nelle istituzioni relative.
Ebbene costui, riproponendo, spalleggiato dai suoi fan (Bel Pietro di La verità fra i più protervi) la sfida di maggiore successo mediatico – “è peggio essere ucciso o essere bendato”? -, (più radicalmente) ignora che, posti a confronto i due fatti, postili in competizione sul (dis)valore, li omologa culturalmente.
E con ciò ne sopprime l’eterologia, l’alterità, la discontinuità.
Giacchè il primo è individuale e privato, il secondo è collettivo e pubblico, giudiziario.
E in quanto tali rinviano a sistemi di produzione differenti: l’uno naturalmente sociale, l’altro artificialmente statale, giuridico.
E a sistemi di funzione differenti: l’altro per processare giudiziariamente l’uno, non per imitarlo (se non voglia disidentificarsi anche storicamente).

Eppure Salvini si è posto alla guida “populistica” della imitazione dell’uno dall’altro.

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SREBRENICA

SONO PASSATI VENTIQUATTRANNI DACCHE’ UNA TIFOSERIA ULTRAS MILITARIZZATA IRRUPPE NELLA CITTA’ PER MASSACRARVI I “BOSGNACCHI” (bosniaci musulmani sunniti).

MENTRE DALL’ITALIA TIFAVA BOSSI, SOTTOBRACCIO A G.L. SAVOINI

Antefatto

L’anno 1991, Stella Rossa Belgrado sprizza gloria calcistica mondiale. Anche Partizan Belgrado, in minor misura.
Le due squadre hanno base in tifoserie oltranziste. 
Anche Slobodan Milosevic sprizza gloria, politica, sedendo arrogantemente a Belgrado.
Stella Rossa ha un “Consiglio”. Milosevic ha una “Sicurezza di Stato”. 
Un membro del primo è a capo della seconda. 
Dunque l’Intelligence, potenza transcontinentale legibus soluta (extralegale) ovunque infilata per il massimo profitto, congiunge i due organismi. 
Di Stella Rossa, particolarmente, la tifoseria.
Di fatti il suddetto Consigliere e capo di Sicurezza, ha qui arruolato Arkan, al secolo Zejko Raznatovic, il leader degli ultras della squadra, destinato a divenire un criminale politico tra i più esiziali.

Prodromo

Nel 1991 la Croazia dichiara unilateralmente la indipendenza dalla Jugoslavia. Lo fa anche la Slovenia.
Milosevic, presidente di Serbia, non se ne dà per inteso. 
Invade la Slovenia, la contunde per dieci giorni, quindi desiste, anche per “intermediazione” di alcuni Stati CE. 
Invade la Croazia stavolta con la bava alla bocca e, raggiunta Vukovar, per ottantasette giorni la bombarda finchè divenga un cumulo di macerie, stermina o mette in fuga la popolazione militare e civile, la occupa. 
Lo ha fatto con un esercito regolare. Ma anche con un esercito irregolare, Costituito, appunto, dalla tifoseria oltranzista di Stella Rossa, organizzata paramilitarmente da Arkan, a capo della propria milizia, la “Guardia volontaria serba” (la più devastatrice, saccheggiatrice, micidiale).

Movente

Milosevic e Arkan, a capo di forze di stato e di stadio dirette al medesimo scopo, sovraintesi da Intelligence, sono serbi che non gradiscono i “non serbi”. 
Per essi, serbi – non serbi, più che una differenza etnica, è una incompatibilità esistenziale. 
Di qui la vocazione alla pulizia etnica, sulla penisola balcanica.Vocazione che, peraltro, è allora spuntata anche sulla (parallela) penisola italica. 
Dentro un partito politico sorto a settentrione, etnista perché credente “fideisticamente” nella etnia “padana” della sua gente. La cui “purezza”, oltre che con violenze sporadiche. persegue cercando separazione, “secessione” , da ogni altra “etnia”, centrale e meridionale (“purezza”, ben inteso, non altro che astruso mito ferinamente rabbioso, che si nutre e si avvera, esclusivamente, nella supposizione e l’offesa dell’ altrui “impurità”).
Vocazione, dunque, corrispondente alla serba. 
Tanto che il capo di quel partito, U. Bossi, sosterrà anche in parlamento i motivi di Milosevic e soci, eruttando (dalla propria intrinseca sgangherata scurrilità), in risposta a M. Pannella che glie lo rimprovera: “Meglio Milosevic che Culosevic..”. 
E perchè accomuna l’etnonazionalismo “padano” al serbo (come ad ogni altro simile). Ovviamente accomunando politicamente i loro agenti. .

Fatto

3. Così, sulla spinta del serbismo pulitore etnico di una parte della penisola balcanica (e ovviamente promotore del dominio politico su essa), erompe la guerra in Bosnia (1992-1995), accesa dalla neorepubblica serba di Bosnia Erzegovina presieduta da Radovan Karadzic (uno psichiatra).
Addì 11 luglio 1995, Srebrenica è una città enclave dei “bosgnacchi” ed è custodita dalla Forza di protezione delle Nazioni Unite: UNPROFOR. 
Ratko Mladic è il comandante in capo dell’esercito regolare di quella repubblica. Con lui c’è il comandante in capo dell’esercito irregolare Arkan. E altri. 
Ivi giunto, concupitane la distruzione materiale e personale, enumeratane la popolazione, preceduto dalla forza paramilitare di Arkan, vi irrompe. 
Indi, tremendo, ordina che i maschi da dodici a settantasette anni siano separati dagli altri e dalle femmine. 
Che siano allontanati dalla città e trucidati. Oltre ottomila. 
Frattanto farà seviziare e stuprare le femmine.
Va nondimeno notato che i caschi blu olandesi lì presenti, pur potendo, non impedirono l’eccidio .

Espiazione

4. Slobodan Milosevic è morto a marzo 2006 mentre è detenuto a L’Aia da quattro anni in attesa di giudizio della Corte penale internazionale, poiché accusato di genocidio (pulizia etnica) crimini di guerra e crimini contro l’umanità (commessi nella guerra in Croazia, in Bosnia Erzegovina, in Kosovo ( 1998-1999). E’ opportuno segnalare (con chi lo ha già fatto), che la notizia di stampa italiana (data da PMieli ad esempio), per la quale Milosevic sarebbe stato assolto dalle accuse, non è corretta. Fu prosciolto per morte del reo (tutt’altra cosa). 
Ratko Mladic è stato condannato all’ergastolo dal Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia, poiché colpevole di genocidio, crimini di guerra e contro l’umanità nella guerra di Bosnia Erzegovina. 
Radovan Karadzic è stato condannato a quarant’anni di carcere (ma in appello all’ergastolo), dal suddetto Tribunale, poichè colpevole di genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità, nella suddetta guerra. 
Arkan, che ancor prima a Visegrad (1992) aveva trucidato centinaia di musulmani, gettati dal ponte Drina o arsi vivi , ha scontato pena di morte impartitagli in contesto exstragiudiziario. 
I caschi blu olandesi, che avevano avuto la medaglia d’onore per eroismo a Srebrenica, recentemente, da una Corte olandese sono stati ritenuti corresponsabili dell’eccidio e condannati ai risarcimenti delle famiglie delle vittime.
La Corte penale internazionale de l’Aia, e il Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia, hanno stabilito, concordi, che, a Srebrenica, fu pulizia etnica mediante “genocidio”.

Resipiscenza

In quattro anni di guerra etnonazionalista, di pulizia etnica, i Bosniaci perseguitati furono orbati di tutti i diritti. 
Pertanto: 
A dicembre 2004, il presidente serbo Boris Tadic si é scusato in nome del popolo serbo.
Ad aprile 2010 il presidente della Croazia Ivo Iosipovic si è scusato di fronte al Parlamento bosniaco.
A marzo 2010, il parlamento serbo ha deliberato di “condannare nel modo più assoluto il crimine commesso nel luglio del 1995 contro la popolazione bosniaca di Srebrenica”.

Ritorni (lugubri)

A proposito di Visegrad martoriata da Arkan, oggi echeggiante per i facinorosi assembramenti antieuropeisti dei “sovranisti” (che paiono averla scelta per celebrarsi spavaldamente insieme al massacro etnico dei musulmani), particolarmente dei salvinisti, vogliosi di “etnonazionalismo” ( che Salvini, un “derivato” di Bossi, ha oggi esteso all’intera penisola), un tempo e altrove detto “nazionalsocialismo” (breve: nazismo): 
secondo un report di C. Gatti, al fianco di Bossi schierato sulle “ragioni” di Milosevic (vd sopra) vi sarebbe stato Savoini G.L.. 
Si, proprio lui, il “nazista come pochi”, per definizione degli stessi “padani”. Colui che, oggi, pare avere cospirato con Salvini e con l’etnonazionalismo russo, per la promozione di questo in Europa, passando per l’Italia.

Virologia degli elementi (sopra) apparsi

Posto che Salvini non ha trascurato (nemmeno) l’apporto delle tifoserie ultras, se, vestito delle loro divise, si è esibito, tempo addietro, in deferenti ( e complici) omaggi col capo della tifoseria milanista L. Lucci:
etnismo, fanatismo ultras, intelligence, sovranismo, militarismo, pulizismo etnico, (e ovviamente) armamentismo, potrebbero essere elementi tipici ( e costanti) dell’etnonazionalismo, alias nazionalsocialismo alias nazismo? 
Come tali bastanti alla fabbricazione e ubicazione di materia esplodente umana, cui manca solo l’innesco per imperversare?
Pietro Diaz

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SALVINI, Di PIETRO ED IL GIP DI SEA WATCH

La manutengoleria ( ciò che e chi da una mano al facinoroso) mediatica a prò del ministro dell’interno trova da tempo, in taluna specie di conduttori televisivi, turgida espressione.
Un esempio. l’otto luglio scorso su Rete Quattro, lo si e’ avuto con l’azzimato e (apparentemente) signorile Porro, che a prima vista non diresti tendenzioso oltre misura.
Lo spettacolo parte con le cacofonie (suoni sgradevoli) e cacologie (logiche malvage e insensate) – ovviamente in composizione rigorosamente fasciorazzista- del tracotante Salvini. 
Vabbeh.., si pazienta, ci si impone di ascoltare per dovere etico e politico di eventuale critica, si spera che al più presto finisca. 
D’altronde il giro di pensiero dell’oggetto precipuo (Salvini) della viscida propaganda del servile e complice conduttore e’ infinitamente più breve di quello dei suoni che lo esprimono; ad aspettare che finisca non ci si lede troppo. 
Ma uscito Salvini, si intravvede, nello spettacolo, una trama fieristica del suddetto più meditata e articolata. 
Dopo lui (apparentemente neutro) appare A. Di Pietro. 
Al quale, dopo preliminari moine, vaniloqui, astrazioni, il conduttore pone la questione (programmata) della ordinanza del gip di Agrigento- che non ha convalidato l’arresto del comandante di Sea Watch – e domanda se la condivida. 
Egli legge l’ordinanza – la quale, nitidamente, raffrontato l’ordine del ministro ( non la legge del ministro: il “decreto sicurezza bis”!)” di fermo in mare extraterritoriale di Sea Watch con le norme nazionali internazionali sovrannazionali, lo dice illegittimo e lo disapplica-. 
E pronto, sancito che essa ha violato la legge, che la legge o si cambia o si rispetta, che la legge che non piaccia può essere spedita alla Corte Costituzionale perché la cambi, emette, ispirato: 
io avrei convalidato l’arresto. 
Musica (attesa) per la propaganda ministeriale del conduttore che, simulatamente dubitativo, reitera: 
Lei lo avrebbe convalidato? 
E l’interrogato, che manifestamente non ha distinto tra una legge, non disapplicabile dal giudice, ed un atto amministrativo, invece disapplicabile. E che così confondendo è giunto a raffigurare che l’atto amministrativo, anziché la legge, possa essere portato alla Corte costituzionale per rispondere della sua eventuale illegittimità, lo rassicura condiscendente:
certo. 
Quindi i due si congratulano reciprocamene riconoscenti del successo della rappresentazione. Convinti di avere ben servito Salvini, anche perché ignari del fallimento (giuridico) della tragicommedia propagandistica.
E ovviamente ignari anche di ben altro: 
che “la prima repubblica” (nella quale l’indecenza politica di un Salvini non sarebbe stata neppure ipotizzabile), con il suo complesso e spesso sistema politico, niente meno, fu abbattuta da un attrezzo giudiziario quale il suesposto…
Pietro Diaz

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SEA WATCH3 E IL POTERE O DOVERE DI RESISTENZA ANCHE VIOLENTA ALL’ATTO PUBBLICO INGIUSTO

1. Al collasso del potere fascista, fu introdotta una norma puntualmente antagonista del segno precipuo d’esso, l’autoritarismo del rapporto “Stato-Cittadino”. 
Col D. Lgs. Lgt n 288/1944 art. 4, fu data al secondo la facoltà di resistere (anche mediante violenza se necessaria: artt. 336, 337 cod pen) all’atto arbitrario del pubblico ufficiale (dell’incaricato di pubblico servizio o del pubblico impiegato) che avesse dato causa al fatto (delittuoso) eccedendo i limiti delle proprie attribuzioni. 
Cioè fu data la facoltà di “us(are) violenza (o minaccia) per opporsi ad un pubblico ufficiale mentre compie un atto di ufficio…”, restando impuni”(vd in combinazione gli articoli indicati) 
Con norma manifestamente antifascista, univocamente implicante che la sua precedente assenza dal codice fu manifestamente fascista. Per assunto indiscutibile anche storiograficamente, giacchè il codice fascista (1930) appositamente aveva espunto dal codice “liberale” (1889) la norma corrispondente alla suddetta (allora in articoli 192, 199). E lo aveva fatto per marcare la svolta politica, su quel rapporto, in senso autoritario, verso la incondizionata sottomissione del Cittadino a (gli agenti de)llo Stato.
Quindi la norma del 1944 riconduceva il rapporto Stato-Cittadino al periodo “ liberale”, fecondato dall’antifascismo. Il quale inoltre volle introdurre altra norma coetanea, parimenti significativa: il D.L.L. n. 224/1944, che abolìsse la pena di morte (per le “i civili”, esclusi militari, e inoltre nazisti e fascisti: in seguito anch’ essi per varie vie immunizzati da essa). Anche questa pena era stata introdotta dal codice fascista a spregio- ancora una volta- del codice “ liberale” che l’aveva esclusa per tutto il Regno d’Italia.
1.1 In seguito tuttavia, una giurisprudenza ideologicamente ostile alla nuova norma sul rapporto Stato-cittadino, ha fatto acrobazie (che non si sta ad esporre, anche perché tecnicamente impresentabili) per contenerne al minimo la portata, riconducendo il rapporto allo stampo fascista, culturalmente irremovibile. 
E forse per ciò si è pensato di “richiamarla in servizio” recentemente (L. n. 94/2009), codificandola (cioè solennemente immettendola nel codice), all’art. 393 bis cp, col titolo ”Reazione legittima ad atti arbitrari del pubblico ufficiale”; a tenore della quale, come in passato ma stavolta per legge repubblicana, quando il pubblico ufficiale o altro agente pubblico abbia “dato causa al fatto (di resistenza oltraggio altro ndr) eccedendo con atti arbitrari i limiti delle sue attribuzioni…” non è punibile chi a lui reagisca anche mediante violenza se necessaria. 
1.1.1.Ma se ciò la ha rinverdita politicamente, anche per il contributo interpretativo datole da Corte Costituzionale nel 1998 (sent. n. 140), essa, tuttavia, è rimasta ben lungi dall’incidere effettivamente la cultura generale del Paese, mantenutasi autoritaristica sia nella sfera popolare che in quella elitaria, reciprocamente colludenti all’insudditamento del Cittadino allo Stato. Alla rifascistizzazione del rapporto. 
Manifestazioni e propagande della ideologia e della pratica relative, e dei loro primi attori, infestano e infettano la comunicazione pubblica.
1.2 Dunque la facoltà giuridica di resistere anche con la forza all’ingiustizia della istituzione politica è pienamente sancita nell’ordinamento giuridico. Lo attesta addirittura il codice più d’ogni altro autoritario e assoggettativo, quello penale, che incrimina la resistenza violenta (o minacciosa), ma la scrimina quando essa abbia reagito a quell’ingiustizia (vd sempre gli articoli sopra evocati).
2. Si è parlato di resistenza ad “atti” del potere pubblico che eccedano i limiti delle sue attribuzioni, non di resistenza a “leggi” d’esso.
Lo si è fatto perché nella vicenda Sea Watch 3 è in ballo la prima resistenza, non la seconda, contrariamente a quanto riportato nella comunicazione pubblica (pressoché totale) in tema. 
Giacchè, se è vero che una legge (scandalosamente privatizzata dall’uomo “politico” tra i meno civilizzati della storia della repubblica) ha fatto da sfondo alla drammatica interazione Ministro dell’Interno-Sea Watch per “motivi di ordine e di sicurezza pubblica”; o (non è ancora chiaro) per impedire “passaggio pregiudizievole” o “non inoffensivo” di una nave che trasporti persone per ragioni riconducibili a Convenzione UNCLOS-Montego Bay (la legge ha dato al ministro poteri esclusivi di regolazione del traffico navale – non militare o da guerra né in servizio governativo non commerciale- nel mare territoriale). 
Se è vero ciò, è stato tuttavia un “atto” del ministro dell’Interno, pubblico ufficiale nella circostanza, a determinarne i contenuti.
L’atto (amministrativo non legislativo!) col quale costui ha impedito alla nave civile (non militare) recante naufraghi soccorsi, di accedere al mare territoriale, e, lì acceduto, di attraccare alla banchina del porto (di Lampedusa).
2.1 Si sfiora soltanto la questione se, l’atto del Ministro dell’Interno, sostanzialmente inibitivo o punitivo del soccorso di naufraghi e della loro conduzione in porto sicuro, sia stato illegittimo per violazione di leggi nazionali internazionali soprannazionali, vigenti sul “territorio liquido” dello Stato (norme che il Ministro ha costretto, addirittura, ad una “inversione a U”: obbligo di soccorso-divieto di soccorso! soccorso- abbandono in mare! e cosi via..). Essa è subito risolvibile affermativamente, giacchè: 
Per art 98 Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del Mare (Unclos)-Montego Bay (1982): «Obbligo di prestare soccorso»: “1. Ogni Stato deve esigere che il comandante di una nave che batte la sua bandiera…: a) presti soccorso a chiunque sia trovato in mare in condizioni di pericolo; b) proceda quanto più velocemente è possibile al soccorso delle persone in pericolo, se viene a conoscenza del loro bisogno di aiuto…. 2. Ogni Stato costiero promuove la costituzione e il funzionamento permanente di un servizio adeguato ed efficace di ricerca e soccorso per tutelare la sicurezza marittima e aerea….” 
Per Convenzione Internazionale di Amburgo sulla Sar (ricerca e soccorso) (Punti 3.1 ss ): 
Il diritto internazionale impone agli stati di obbligare i comandanti delle navi che battono la propria bandiera nazionale a prestare assistenza a chiunque venga trovato in mare in pericolo di vita, di informare le autorità competenti, di fornire ai soggetti recuperati le prime cure e di trasferirli nel più breve tempo possibile in un luogo sicuro. Inoltre: 
gli Stati membri dell’Imo (Organizzazione marittima internazionale)… fanno sì che i comandanti delle navi siano sollevati dagli obblighi di assistenza delle persone tratte in salvo, con una minima ulteriore deviazione, rispetto alla rotta prevista. e senza tener conto della nazionalità o della condizione giuridica di dette persone.
Per la Convenzione internazionale per la salvaguardia della vita in mare (Solas): 
Le autorità di uno Stato costiero competente sulla zona di intervento… le quali abbiano avuto notizia ….della presenza di persone in pericolo di vita nella zona di mare Sar di propria competenza, dovranno intervenire immediatamente. 
Per la individuazione del luogo di sbarco (Pos: porto sicuro) elaborata dal’Unhcr (Alto Commissariato della Nazioni Unite per i rifugiati) con le Linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare: 
il Governo responsabile per la regione Sar in cui sono stati recuperati i sopravvissuti è responsabile di fornire un luogo sicuro di sbarco o di assicurare che tale luogo venga fornito. 
Per art. 1158 cod. nav. “Il comandante di nave…che ometta di prestare assistenza ovvero di tentare il salvataggio nei casi in cui ne ha l’obbligo a norma del presente codice, è punito con la reclusione…”
2.2 E si soppesa la questione se l’atto del ministro dell’Interno sia stato illegittimo per violazione della “legge” da lui stesso datasi (D.L. 14 giu 2019 n. 53: ”decreto sicurezza bis”), a causa di eccesso dai limiti giuridici delle attribuzioni conferitegli. 
Attribuzioni certo non comprendenti la modificazione o la inversione dei precetti delle Carte internazionali. 
Ancor meno l’imposizione a Sea Watch dell’inadempimento dei suoi doveri funzionali di soccorso e sbarco dei naufraghi.
E ancor meno il (verosimile) cagionamento, con esso, di eventi delittuosi di “sequestro” degli occupanti di Sea Watch (art 605 cp), e di “tortura” d’essi (sottoposti, nel pieno potere materiale del ministro dell’Interno, a “trattamento inumano e degradante per la dignità della persona”): art 613 bis c.p. (si nota incidentalmente che i due eventi- così detti di “ durata della condotta lesiva”- cagionati dall’arresto coatto del natante nel mare davanti Lampedusa, lo sarebbero stati anche dal viaggio, coatto, che il natante da quel punto avesse intrapreso “verso l’Olanda” o in altro luogo altrettanto remoto- secondo la sprezzante esortazione, e la bruciante irrisione, dell’autore di quell’atto-). 
2.2.1 Di fatti fosse, l’atto del ministro, sorto da “motivi di ordine e di sicurezza pubblica” o per impedire “passaggio pregiudizievole” o “ non inoffensivo” (questa finalità è stata ripetutamente sostenuta, su Tgcom24, da “un esperto” della materia, cui tuttavia sfuggiva che Sea Watch non “passava”, in transito ovviamente, per il mare territoriale, ma (proprio) lì andava, per starvi ed attraccare ad un suo porto!), ebbene: 
né quel motivo, né quel fine, davano, all’atto, il potere (scriminante) di cagionare i suddetti eventi. Incontrando, esso, il limite della proporzione del mezzo al fine (non si regola “il transito e la sosta” navali sequestrando o torturando il navigante). 
E comunque incontrando il limite della intangibilità della libertà dell’integrità della incolumità della dignità della umanità, del navigante. 
Atto del ministro, quindi, secondo la sua stessa legge promotore di ”ordine e di sicurezza pubblica”, che schizofrenicamente ha innescato disordine e insicurezza fra i soggetti che coinvolgeva, anzi ferita profonda della loro umanità. 
2.3 E’ opportuno rilevare che, essendo (verosimilmente) divenuto l’atto delittuoso, come suggerisce il precedente giudiziario della nave Diciotti, il quale, per fatto del tutto identico, ha addebitato sequestro di persona al ministro in parola (poi sottratto al processo dalla complicità degli associati al Governo della Repubblica): 
sia colui che lo ha formato, sia coloro che (in ogni modo) lo hanno eseguito, potrebbero avere messo quei delitti in concorso. Gli esecutori anche perché, essendo l’ordine del ministro manifestamente illegittimo, avrebbero dovuto disattenderlo per non risponderne (art 51 cp).
2.4 Orbene, in siffatta situazione, ove l’atto il suo autore i suoi esecutori agivano (illecitamente) per inibire l’adempimento del dovere di soccorso e di sbarco gravante Sea Watch ed il suo Comandante, questi era titolare del potere dovere, giuridici, di resistere ad esso opponendosi, ove necessario anche mediante violenza (vd sub 1.s prima parte dello scritto).
3. Violenza che peraltro – consistendo della produzione e trasmissione di energia materiale sulle persone (o sulle cose) sì da modificarne lo stato- mancò in ogni fase della vicenda (e certo non fu violenza nel senso visto, che è lo stesso dei delitti di resistenza a pubblico ufficiale o di violenza ad esso ex artt 337. 336 cp, l’inosservanza giuridica -non materiale- dell’ordine del ministro). 
Ora
3.1 A stare alle cronache, è certo che Sea Watch ha disatteso il comando ministeriale di arresto nel mare extraterritoriale, il divieto ministeriale di accesso e sosta nel mare territoriale, il divieto di attracco alla banchina del porto di Lampedusa. 
Indubbiamente disattendendo, inoltre, la loro riproduzione ad opera della motovedetta della Guardia di Finanza, che la avrebbe compiuta solcando simbolicamente – in incessante andirivieni -lo specchio d’acqua via via approssimato dalla prua di Sea Watch. 
Disattendendola, ma senza violenza (potrebbe dirsi in “resistenza passiva”, che non è reato).
3.2 Ebbene, deliberato da Sea Watch, dopo lunga (penosa) sosta nel mare territoriale, l’approccio alla banchina del porto, in “lent(issim)o moto”e “in abbrivio” (solo imperfettamente governabile da chiunque, riferiscono gli esperti) di una massa galleggiante di seicento tonnellate…, indirizzata la prua verso la banchina con opportuna inclinazione, riservato il richiamo della poppa ad essa con ricorso ai motori, la motovedetta GdF, sfruttando la grande mobilità della sua ben inferiore stazza, si sarebbe interposta fra la banchina e la Sea Watch, assumendo il rischio (autoprodotto) dell’incastro tra le due (che comunque, intuitivamente, sarebbe stato inoffensivo per tutti gli occupanti le navi). Indi si è allontanata, e Sea Watch ha potuto attraccare. 
Vale anche per questa fase quanto detto per la precedente sulla assenza della violenza, nella opposizione all’atto del ministro (atto tuttavia, ripetesi, per quanto sopra, illegittimo, anzi illecito ove tentasse di protrarre gli eventi delittuosi sopra ipotizzati). 
Più di un commentatore ha obbiettato:
la motovedetta rappresentava lo Stato! 
Certo, ma non quello fascista del rapporto autoritario col cittadino, bensì quello democratico del rapporto legalitario e critico e paritetico con esso. Critico fino alla resistibilità dell’atto illegittimo, nei modi e nei limiti in art 393 bis cp!. 
Più di un commentatore ha obbiettato: 
la motovedetta era “nave da guerra”. 
Anzitutto non lo era (come per primo rilevato dall’alto Ufficiale di Marina De Falco, pur variamente criticato). 
Lo attesta incontrovertibilmente l’art. 29 Uncloss-Montego Bay: “Definizione di nave da guerra. Ai fini della presente Convenzione, per “nave da guerra” si intende una nave che appartenga alle Forze Armate di uno Stato, che porti i segni distintivi esteriori delle navi militari della sua nazionalità e sia posta sotto il comando di un Ufficiale di Marina al servizio dello stato e iscritto nell’apposito ruolo degli Ufficiali o in documento equipollente, il cui equipaggio sia sottoposto alle regole della disciplina militare”. 
Ora, a parte altro: la motovedetta GdF era al “comando di un Ufficiale di Marina al servizio dello stato e iscritto nell’apposito ruolo degli Ufficiali…”? 
Ma se fosse stata “nave da guerra”: 
o si implica che, in tempo di pace, potesse applicare leggi di guerra!
O che potesse eccedere le leggi italiane del tempo di pace! 
O l’essere “nave da guerra” era del tutto inconferente. La sua condotta soggiaceva alle norme giuridiche vigenti nello Stato, quelle amministrative civili penali sul divieto di atti illegittimi in danno delle prerogative civili, e sulla resistibilità mediante opposizione anche violenta ad essi. 
3.2 Ovviamente, sia l’assenza di “nave da guerra”, che, comunque, l’assenza di violenza delle resistenza, escludevano la violazione in art 1100 cod. nav.. 
La quale peraltro, più pertinentemente, avrebbe potuto essere appuntata su art. 1099 cod. nav. – Rifiuto di obbedienza a nave da guerra-: reato punito con la pena massima di due, non di dieci, anni di reclusione.
P.S
Questo scritto è stato concepito e composto (e in parte diffuso altrove) prima della ordinanza gip tribunale di Agrigento del 2 Luglio 2019.
Pietro Diaz

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