Sopravvive nel nostro ordinamento una norma subdola (invero, non l’unica) che, malgrado sia posta a tutela di soggetti deboli come i minorenni, di fatto si presta ad abusi che ne frustrano le finalità, sfociando spesso in atti che, prescindendo dalla realtà fattuale e dalle dinamiche inerenti i rapporti familiari, risultano lesivi dei diritti dei minori stessi, nonché dei diritti e delle potestà genitoriali.
Atti che poi, data la generica formulazione della norma, trovano spesso ratifica tacita da parte dell’autorità giudiziaria preposta al vaglio di essi.
Si tratta dell’art. 403 c.c., che prevede l’intervento della “pubblica autorità” per collocare “in luogo sicuro” il minore che versi nelle condizioni espresse dalla stessa norma; un intervento, cioè, volto a superare, coattivamente, a date condizioni e qualora sussistesse, la contraria volontà dei genitori.
E poiché nella categoria “pubblica autorità” sono annoverabili anche gli organi di polizia, la disposizione in esame consente, anzi, impone (anche) a costoro, a mezzo degli organi di protezione dell’infanzia, interventi particolarmente incisivi in ambito familiare. Peraltro, nella prassi, risulta assai frequente l’intervento di detti organi di polizia, giustificato da ragioni di urgenza che non consentono il vaglio preventivo delle vicende concrete da parte dell’autorità giudiziaria.
Un vaglio che, in ogni caso, deve intervenire immediatamente dopo, essendo la collocazione del minore prevista dall’art. 403 c.c. atto provvisorio, efficace per il tempo strettamente necessario per devolvere all’autorità giudiziaria minorile l’esame della vicenda e il conseguente pronunciamento.
Ma proprio a tal proposito emerge la pericolosità insita nella lacunosità della norma in questione. Quest’ultima, infatti, non prevede espressamente un limite temporale di efficacia dell’atto di collocazione del minore in luogo sicuro, individuato, per lo più, al di fuori dall’ambito della propria famiglia in senso stretto.
E allora, può accadere quanto segue: un venerdì sera, la squadra mobile della polizia, sezione minori, sottrae ad una donna la propria figlia minorenne (della quale è unica affidataria, a seguito di separazione coniugale), accreditando accuse infamanti da quest’ultima rivolte alla propria madre.
Apparentemente, le accuse sono gravi, tali da giustificare l’intervento ex art. 403 c.c., nell’attesa di ulteriori indagini sulla loro fondatezza.
La madre si reca in questura per capire quanto accada, ma un appartenente agli organi di tutela dei minori l’allontana senza fornirle alcuna informazione.
Nel frattempo, dopo un’audizione protetta, la minore viene collocata, ex art. 403 c.c. (come si apprenderà in seguito), in un luogo che la polizia presume “sicuro”. Alla madre, però, non viene data alcuna comunicazione formale. L’art. 403 c.c. non la prevede, anzi, parrebbe perfino escluderla. Con il risultato che, per un sabato e una domenica, a causa della chiusura degli uffici, la donna è impossibilitata ad acquisire informazioni, restando all’oscuro di quale sia lo specifico provvedimento che l’ha colpita negli affetti più cari. Il sistema la schiaccia, così come schiacciava l’uomo Kafkiano, secondo una concezione nichilistica evidentemente attuale.
Il lunedì successivo, apprende informalmente (e non certo dalla Questura) quale sia il provvedimento adottato dalla polizia e, soprattutto, constata che il luogo di collocazione della propria figlia è quello ove vivono persone che intrattengono con la minore stessa relazioni in precedenza definite disturbanti dai servizi sociali. Dunque, il luogo ritenuto “sicuro” dalla polizia, perfino in assenza di accertamenti in merito (secondo quanto emergerà), in realtà non è tale.
Tramite il difensore, viene comunicato ciò alla questura, richiamando la relazione dei servizi sociali attestante quanto detto, in possesso sia del Tribunale per i Minorenni, sia della relativa Procura della Repubblica. Ma la polizia non modifica le proprie determinazioni, per la semplice, asserita, impossibilità di reperire altro luogo per la minore. La dovrebbe tutelare, ma prevalgono i problemi logistici.
La madre, allora, confida nell’indefettibile intervento, garantistico, giudiziale. Deposita, inoltre, una memoria al Tribunale per i Minorenni (oltre che presso la relativa Procura della Repubblica) esplicativa di quanto detto e contenente l’istanza volta a far rientrare la minore nel proprio ambito familiare ristretto o, in subordine, preso atto delle indagini contra se, alla sua collocazione altrove, in luogo realmente sicuro.
Ma passano i giorni e perfino i mesi, nell’inerzia totale del giudice, che omette qualunque vaglio del provvedimento di polizia, malgrado l’urgenza di esso.
Solo dopo oltre due mesi dal fatto, prende avvio un’attività istruttoria da parte del giudice investito del caso, sottesa sia al giudizio sul provvedimento ex art. 403 c.c. in parola, sia all’adozione di eventuali prescrizioni per entrambi i genitori della minore. Ma proprio per l’assenza di un termine perentorio che lo imponga, il vaglio giudiziale del provvedimento ex art. 403 c.c., ad oggi, non è ancora stato completato con l’emissione di un provvedimento che lo confermi o lo modifichi o lo revochi.
Nel frattempo, nulla è emerso circa la fondatezza delle accuse rivolte dalla figlia alla madre, alla quale, malgrado l’assenza di provvedimenti che incidano sulla sua potestà genitoriale, viene impedito l’esercizio di essa. E ciò, come detto, in forza di un atto di polizia, mai convalidato, che continua a dispiegare efficacia per la condotta, colpevole, del giudice che su di esso dovrebbe giudicare: dapprima, inerte; successivamente procedente secondo termini non consoni ad un procedimento urgente.
Manca la certezza del fondamento delle accuse che la figlia rivolge alla madre, mentre vi è la certezza che il luogo di collocazione non risponda ai requisiti di sicurezza imposti normativamente. Malgrado ciò, il giudice persiste nell’adagiarsi sull’attività di polizia (confortato dai sospetti che ne costituiscono l’essenza), che, finora, tacitamente, ratifica, assicurando ad essa piena efficacia, perfino elusiva dei procedimenti e dei provvedimenti riguardanti la potestà genitoriale, che, di fatto, tale attività nega.
Un giudice, dunque, che, tacitamente (per l’omissione fino ad oggi del vaglio imposto dall’art. 403 c.c.), ed espressamente (per la propria attività dichiaratamente istruttoria, ex lege) si contrappone ad una parte (la madre). Anch’egli, infatti, indaga sulla parte sulla quale indaga la polizia, rispetto alla quale, invece, si trova in perfetta sintonia, perpetuando, come detto, gli effetti, nefasti, del suo atto.
E qua sta un’altra falla del sistema, poiché, malgrado il giudice sia chiamato ad esprimere una valutazione circa l’operato di una parte (la polizia) rispetto ad un’altra (la madre), in realtà non riveste una posizione di terzietà. Anzi, nell’omissione del vaglio sopra richiamato, è palese, anche fattualmente e culturalmente, la sua contiguità con una parte (la polizia), del cui provvedimento presume la legittimità, escludendo che possa nuocere alla minore, anzi che tutelarla (altrimenti, perché non interverrebbe ?).
Si tratta, chiaramente, di una vicenda frutto di una norma tanto generica quanto delicata, che omette di imporre al giudice il rispetto di termini (ristretti) per il vaglio suddetto, che consenta il contemperamento degli interessi in gioco e, nel contempo, garantisca la piena tutela degli stessi. In particolare, la tutela effettiva di soggetti deboli come i minori, non certo assicurata da meccanismi normati (quando lo fossero) lacunosamente, che consentono al potere poliziesco provvedimenti che, in altri settori dell’ordinamento, sono immediatamente sottoposti al vaglio del giudice. Si pensi, esemplificativamente, ai termini ristretti previsti per la convalida dell’arresto, o del sequestro di cose. Termini ristretti che, invece, le norme ipocritamente poste a tutela dei minori non prevedono.
E’ evidente, una volta di più, l’ineludibilità delle forme, che apprestano garanzie. Specialmente laddove gli appartenenti alla società civile si contrappongano alle forze dell’ordine, in ossequio alle quali, talora, il potere giurisdizionale giunge perfino a sacrificare, di altri, ciò a cui nessun appartenente ad esso, umanamente, rinuncerebbe.
Antonio Meloni