Roma, 1 mar. (Adnkronos/Aki) – “Sono stato torturato selvaggiamente, ma non mi arrendo e non chiuderò gli occhi di fronte a tanta ingiustizia”. E’ quanto scrive Javid Houtan Kian, avvocato dell’iraniana Sakineh Mohammadi Ashtiani, in una lettera scritta dal carcere e indirizzata ad alcuni media internazionali, tra cui cita AKI-ADNKRONOS INTERNATIONAL. L’uomo, che secondo il Comitato internazionale contro la lapidazione è stato condannato a morte e rischia una impiccagione immediata, chiede in particolare che il suo messaggio arrivi al Vaticano, affinché si mobiliti sul suo caso.
All’inizio della lettera, consegnata clandestinamente a un suo contatto, Houtan Kian fa riferimento ad alcune testate internazionali che hanno seguito il caso Sakineh, tra cui Aki, Bbc, Le Monde e Voice of America, chiedendo che il suo messaggio sia portato anche all’amministrazione Usa, al segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon, a ong come Avvocati senza frontiere e a Mina Ahadi, presidente del Comitato contro la lapidazione. “Ho trascorso molti giorni in una cella in isolamento nel carcere di Evin a Teheran e da 15 giorni mi hanno portato di nuovo nel carcere di Tabriz, nella sezione per i tossicodipendenti e i malati di Aids”, scrive Houtan Kian, arrestato il 10 ottobre 2010.
L’uomo è finito in manette insieme a Sajjad Ghaderzadeh, figlio di Sakineh, e a due giornalisti tedeschi (questi ultimi liberati due settimane fa) che li intervistavano a Tabriz sul caso della donna condannata alla lapidazione per adulterio e complicità nell’omicidio del marito. L’avvocato scrive di avere “12 denti rotti” e “bruciature di sigarette sui testicoli”. “A causa degli evidenti segni delle torture che ho subito, non mi è stato concesso di farmi visitare da un medico”, scrive ancora l’avvocato, che in una serie di interviste ad Aki a settembre 2010 aveva chiesto una mobilitazione internazionale per salvare Sakineh. “Mia madre risiede da tempo negli Usa e, quando ha saputo del mio arresto è tornata subito in Iran – scrive ancora l’uomo – Ora è stata rinchiusa in un carcere del ministero dell’Intelligence, per evitare che rilasci interviste sul mio caso”.
Nella lettera, scritta su alcune pagine di un diario in cui i punti salienti sono evidenziati con l’inchiostro rosso, l’avvocato racconta la sua vicenda, ricordando che già suo padre nel 1980 è stato fucilato con l’accusa di aver collaborato con un partito di opposizione. Spiega che, dopo l’arresto a ottobre, ha trascorso una prima giornata nel carcere di Tabriz, per essere poi trasferito in aereo, con gli occhi bendati, a Teheran, “nella sezione 209 del carcere di Evin”.
Nel famigerato carcere della capitale, “sono stato condotto in un sotterraneo dove hanno iniziato a torturarmi – scrive Houtan Kian – Mi hanno spento una sessantina di sigarette tra le gambe e intorno ai testicoli”. “Nei primi due mesi di isolamento mi davano solo un pasto a colazione, di solito un pezzo di pane con del formaggio o tre datteri – prosegue – In questi mesi ho perso circa 50 chili. A causa delle percosse, ho perso 12 denti e ho il naso rotto, che ancora sanguina”.
“Molte notti mi conducevano nel cortile della prigione e, dopo essere stato bagnato con le pompe a pressione, ero costretto a correre per ore, restando nudo al freddo fino alle 4 del mattino. A quel punto mi portavano dentro per gli interrogatori – dice – Riportato a Tabriz, sono stato ricoverato nell’infermeria del carcere e i medici mi hanno detto che è un miracolo se sono ancora vivo. Ora mi trovo nella sezione 7 del carcere di Tabriz insieme a tossicodipendenti e malati di Aids”.
Le sue colpe, spiega, sono “aver difeso con coscienza e coraggio i miei assistiti, aver denunciato la corruzione della magistratura di Tabriz, aver svelato segreti di stato ai media stranieri, aver rivelato le vere ragioni della morte di attivisti come Zahra Kazemi e del giovane medico di Kahrizak, Ramin Pour-Andarjani, l’aver scritto articoli sulle ultime elezioni presidenziali, denunciando brogli”.
Tornando poi a parlare del caso di Sakineh, Houtan Kian scrive, nella lettera consegnata ad Aki dal Comitato internazionale contro la lapidazione: “Per questo incarico non ho chiesto alcun compenso. Mi sono anche occupato dei due figli di Sakineh, contribuendo alle loro spese”. Sul caso, “ho rilasciato diverse interviste a media stranieri, la prima a una giornalista svedese”. In merito a questa intervista, l’avvocato dice di aver scoperto in seguito che il traduttore era una spia.
Infine l’avvocato parla con rammarico di Sajjad Ghaderzadeh, figlio di Sakineh. Il giovane, anche lui incarcerato a ottobre, in un controverso documentario girato dalla tv ha ammesso, probabilmente sotto pressione, le colpe della madre. “Purtroppo, Sajjad ha accettato di diventare un collaboratore del ministero dell’Intelligence – conclude – fornendo dettagliate informazioni sul caso”.
Se la magistratura italiana carcera l’avvocatura (vd, tra altri, l’avvocato che aveva letto in aula la dichiarazione di un accusato di “mafia”) come quella iraniana, come distinguerle, sul piano della civiltà giuridica e giudiziaria?
lo sprovveduto (il complice involontario dell’una e dell’altra) risponderebbe:
carcera ma non tortura e sarebbe convinto di averle distinte (davanti l’opinione pubblica e sè stesso)…