L’autore della legge penale, con l’arma della “pena” (sempre al fianco), offende la persona del reo, così come questo offende(rebbe) altro;
ma mentre questo è punito, quello non lo è;
eppure entrambi sarebbero offensori, offensori sociali, cioè partecipi e originari del medesimo composto sociale, che contiene la regola di eguaglianza generale, della legge eguale per tutti, quelli in situazioni eguali, si intende, non in situazioni diseguali, ma di questi, comunque, ne vieta “distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali” (art. 3.1 cost);
per cui, se l’autore della legge penale, quale offensore del reo, non fosse diseguale a lui quale offensore d’altro, e se il reo non fosse da lui “distin”to per quel divieto, essi dovrebbero essere eguagliati, siccome in situazioni eguali;
peraltro, che, il primo, sia diseguagliabile, dal secondo, poichè offensore del reo per (e con la) legge (cioè perché “legiferatore”, diversamente dal reo, che è “legiferato”), non è (neppure)immaginabile, se, egli, è emanazione, elettiva e giuridica, (anche) del reo, suo rappresentante nell’esercizio di una sua funzione, che esercita esclusivamente in sua vece (non avendo, neppure, la sovranità, per legiferare, che, di fatti, mutua, anche formalmente, dal reo: dal popolo ove questi nasca e viva);
dunque, in questa approssimazione alla loro rispettiva “situazione” (davanti le regola di eguaglianza), essendo entrambi egualmente offensori: entrambi, dovrebbero essere, punibili o non punibili;
ma in ulteriore approssimazione:
mentre il primo offenderebbe sempre qualcuno (la persona del reo), il secondo, talvolta, potrebbe offendere qualcosa, non qualcuno, e se quella è meno di questo (nell’ordine comune dei valori), il primo offenderebbe più del secondo, quando questo offendesse qualcosa, e molto più quando, offendendo qualcuno, offendesse anche qualcosa (le cose del reo, come, sempre più frequentemente, fanno le “confische”);
e ovviamente, tal maggiore offensività impedirebbe maggiormente, di diseguagliare il primo dal secondo;
ma in più avanzata approssimazione, può vedersi che, il reo, potrebbe non offendere affatto, ma, solo, minacciare di offendere, come accade quando tenti di, ma non riesca a, commettere un reato, o come accade quando commetta un “reato ostacolo”, un reato che ne previene un altro, e che è punito come se questo fosse avvenuto;
e anzi, e per giunta, il reo potrebbe non offendere né minacciare di offendere, neppure nella forma del tentativo di reato, o del “reato ostacolo”, quando il precetto abbia un compito etico (di protezione di un costume sociale, in un contesto sociale multiculturale, relativistico nei valori), o addirittura, quando la reità sia comune, cioè quando l’autore della legge trasgredisca il precetto quanto e come il reo, e tuttavia solo questo, non quello, sia punito (coltivazione di sostanze stupefacenti o psicotrope statale e coltivazione, di esse, individuale);
questi rilievi, mostranti che l’offesa da legge penale è ben maggiore di quella da reato, anzi, che questa potrebbe mancare del tutto mentre mai mancherebbe quella, e mostranti (perfino) che l’autore di quella non sarebbe sottoposto a pena anche quando fosse autore del reato del reo, quando trasgredisse come lui il “precetto”, fosse reo dello stesso reato….
(questi rilievi) impediscono di diseguagliarlo, dal reo, ed impongono di ritenere che questo, diseguagliato perché punito, o perché non impunito come quello, non potrebbe non essere, e dal suo competitore stesso, sottoposto a “distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali” (art. 3.1 cit);
e se, in tale contesto, fosse esperito il criterio, criminologico (ritenuto esplicativo sociologicamente della legge penale) della “diversità” (“criminosità” in senso etimologico) del “legiferato” rispetto al suo “legiferatore”, poiché, esso (criterio), sarebbe pregno della innocenza, o, comunque, della minore colpevolezza, di quello rispetto a questo, allora questo, sarebbe autenticamente diverso, “criminoso”, perché assai più (se non unico) reo, e, per di più, affatto diseguagliato, davanti la regola generale di eguaglianza; e, correlativamente, quello, non potrebbe che sottostare a “distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali” (art. 3.1 cit.), le basi culturali effettive, pur se non esclusive, della sua offesa con l’arma della pena (d’altronde, in tale divaricazione, si ripropone nitidamente la tragedia del capro espiatorio);
per ciò, se non si immaginasse che, anche l’armato della pena dovrebbeessere offeso (non inverosimilmente, invero, giacchè, tanta trasgressione, sociopolitica e costituzionale, della eguaglianza, tanta offensività, verso la parte del popolo detta “rea”, potrebbe rappresentare crimine “contro l’umanità”, o di “genocidio”, secondo la legge criminale internazionale e la Corte sua garante), dovrebbe immaginarsi che neppure il reo potrebbe essere offeso;
o al meno (in questa epoca di penalismo che percepisce nulla della immensa e insensata e istintuale, propria malvagità), (immaginarsi) che non potrebbe essere offeso, con la legge penale, più di quanto egli offenda, la legge penale;
eppure, oggi, la relazione tra la reità e la pena è tornata alla legge mosaica (Dieci Comandamenti), alle sue eredi, Deuteronomio, e, specialmente, Thorah, che alla omosessualità maschile risposero con la distruzione della città di Sodoma, ove essa allignava, alla omosessualità femminile, con la distruzione della città di Gomorra (che, inaspettatamente, mani insolitamente turpi, profanatrici della Scrittura e famelicamente ingannatrici della sua verità, hanno da qualche tempo reso toponimo, ad effetto, della terra dei “casalesi”, involontariamente riconducendo, questa, peraltro, alla innocenza storica di quella);
risposero, quelle leggi, distruggendo ogni forma di vita per colpire una sola forma di vita, ogni obbedienza per colpire una sola “disobbedienza”, sterminando, con l’arma della pena quale arma della guerra;
è tornata, a quelle leggi, la relazione tra la reità e la pena, risalendo le tappe della inumanità, dai roghi ai rei di eresia (Sant’Uffizio), aggirati gli incitamenti ai “contrappassi” (“analogia” della pena alla reità: Inferno dantesco), alle sproporzioni, tra reità e pene, protocristiane (Giustiniano), restando, in fine, sulle atrocità penali della Thorah:
corrivamente ai monoteismi, quali radice d’ogni intolleranza;
eppure, l’umanità aveva cominciato a togliere, quella relazione, dalla preistoria, con la proporzione, della reità alla pena, stabilita dal “talione” (tale la reità, altrettanta la pena: così che se, il detto “occhio per occhio dente per dente..” avesse agitato una minaccia, nella riscrittura volgare a “taglione”, avrebbe ad un tempo promesso corrispondenze, tra esse, perfino, garantite dal reo medesimo, arbitro della misura della pena per esserlo della propria reità ), del “codice di Hammurabi” ( 3700 anni or sono, in Babilonia);
“talione”, che si prolungherà, milleduecento anni dopo, nelle leggi romane (Dodici Tavole),
fino, circa duemila cinquecento anni dopo, a quelle, in Italia, risorgimentali e poi (finanche) fasciste (pur altrimenti denominandosi: retribuzione o simili):
corrivamente ai politeismi, quali radice di ogni tolleranza;
ed oggi, allorchè è divenuta delitto (crimine: nel gergo ferale quanto becero dei suoi persecutori) la coltivazione di vegetali (come la marijuana), sottoponibile a pena d’ergastolo se fosse commesso due volte che fossero punite ciascuna con ventiquattro anni di reclusione (tutto possibile, nulla di fantastico, perché si è tornati a Gomorra, e a Sodoma, e ai pantoclasmi della Thorah), ogni traccia di (altret)talità (di retributività proporzionalità similarità), tra reità e pena, è scomparsa.
Pietro Diaz