(Da IL Garantista) 2.01.15

Riccardo, pestato a morte per due petardi

Posted on 2 gennaio 2015 by Mario Di Vito in Lettere dal carcere with 0 Comments 
 
Per la Cassazione si è trattato di un omicidio «pacificamente evitabile». Nel gergo grigio e gelido delle sentenze vuol dire che sarebbe bastato molto poco perché le cose andassero diversamente. Riccardo Rasman aveva 34 anni quando entrarono a prenderlo, la sera del 27 ottobre 2006, nel suo appartamento di via Grego 18, a Trieste. I vicini avevano chiamato il 113 perché lui stava ascoltando la musica a volume troppo alto e poi si era affacciato – completamente nudo – dal balcone per lanciare due petardi nella corte interna al condominio in cui viveva.
Riccardo durante il servizio militare aveva subito diversi episodi di nonnismo che, successivamente, avrebbero portato a una diagnosi di schizofrenia paranoide. Quella sera era felice, molto felice, troppo felice, almeno per i suoi vicini di casa, ai quali non è mai piaciuto: il giorno successivo, comunque, Rasman avrebbe cominciato a lavorare come operatore ecologico. Alle 20:21 arrivò una pattuglia del 113 sotto casa sua, alle 20:34 ne arrivò un’altra di rinforzo, accompagnata dai vigili del fuoco. Rasman non voleva aprire: si era steso sul letto e aveva spento le luci. C’è da capirlo: nel 1999 Riccardo aveva già avuto a che fare con le forze dell’ordine, ne era uscito malconcio e lo denunciò, senza grosse conseguenze. Da allora, ogni volta che vedeva una divisa, aveva paura. Per questo si era rintanato e aveva spento tutte le luci e si era rintanato a letto quando aveva visto le luci blu delle volanti dalla sua finestra.
Alla fine i poliziotti riuscirono a entrare a casa sua, ne nacque una colluttazione e Rasman venne ammanettato a terra, immobilizzato, con le manette strette intorno ai polsi, del filo di ferro a tenere ferme le caviglie, addirittura un bavaglio per non farlo urlare. Messo così, in posizione prona, cominciò a respirare in maniera sempre più affannosa, fino a che i suoi polmoni non si sono fermati: le perizie dicono che gli agenti esercitarono «sul tronco, sia salendogli insieme o alternativamente sulla schiena, sia premendo con le ginocchia, un’eccessiva pressione che ne riduceva gravemente le capacità respiratorie».
Morte per arresto respiratorio avvenuta tra le 20:43 e le 21:04, si leggerà dopo nei referti. Sul tavolo c’era un biglietto, scritto proprio da lui, un attimo prima dell’arrivo della polizia: «Per favore, per cortesia, vi prego, non fatemi del male, non ho fatto niente di male». Sul muro c’erano macchie di sangue: Riccardo era stato pure picchiato, probabilmente con un manico d’ascia e con il piede di porco che i pompieri usarono per forzare la porta del suo appartamento. «Noi siamo entrati in quell’appartamento soltanto in marzo – racconta Giuliana Rasman, sua sorella -, era un disastro: c’era sangue dappertutto e una chiazza di sangue verso la cucina.
Poi dalle fotografie mi sono resa conto che l’hanno spostato con la testa verso l’entrata così da nascondere la chiazza di sangue che c’era lì. C’era una frattura, i capelli erano tutti pieni di sangue, c’era una frattura anche dietro il collo. C’era sangue sul tavolo, sui muri, sulle lenzuola, dietro il letto per terra, c’erano chiazze di sangue sul tappeto sotto il quale abbiamo trovato persino dei pezzi di carne nascosti. Riccardo era martoriato di botte sul viso, gli avevano rotto lo zigomo.
Poi c’era il segno dell’imbavagliamento, sangue dalle orecchie, dal naso, dalla bocca, si vede proprio moto bene». Il pm triestino Pietro Montone aprì un’inchiesta su questi fatti e – incredibilmente ma fino a un certo punto, visto che è sempre così – affidò tutto agli stessi poliziotti che quella notte irruppero in casa di Riccardo. Nell’ottobre del 2007 Montone chiese l’archiviazione per gli agenti che, a suo giudizio, avevano solo fatto il suo dovere, anche se era certo anche a lui che Rasman fosse morto per «asfissia posturale» dovuta proprio all’intervento della forza di pubblica sicurezza.
Il gip, però, non accolse la richiesta del magistrato che, dopo essere entrato a conoscenza delle indagini fatte dagli avvocati Giovanni Di Lullo e Fabio Anselmo, cambiò decisamente orientamento sul caso. Il fulcro del ragionamento è la prova provata del fatto che gli agenti Francesca Gatti, Mauro Miraz, Maurizio Mis e Giuseppe Di Blasi erano perfettamente consapevoli dei problemi mentali di Riccardo e questo avrebbe – quantomeno – dovuto indurli a usare una maggiore cautela nell’intervento.
Tra l’altro, fu posta anche una domanda fondamentale: che necessità c’era di sfondare la porta quando era palese che Rasman non stesse più causando pericoli, visto che era dentro il suo letto e non stava più lanciando petardi dal balcone?
I quattro uomini in divisa vennero rinviati a giudizio per omicidio colposo.
Il processo di primo grado fu celebrato con rito abbreviato e si concluse con la condanna a sei mesi di carcere (pena sospesa) per tre dei quattro agenti, più il pagamento di una provvisionale da 60mila euro e 20mila euro di risarcimento per danni morali alla famiglia. La quarta agente, Francesca Gatti, fu assolta con «formula dubitativa», ovvero: lei all’azione ha partecipato, e questo è certo, ma, mentre gli altri stavano legando Riccardo per terra, era in contatto via radio con la Questura. Era il 29 gennaio del 2009. Un anno e mezzo dopo la Corte d’Appello del Tribunale di Trieste avrebbe confermato tutte le sentenze del primo grado. Tutte le parti in causa – i poliziotti e la famiglia Rasman – presentarono ricorso alla Cassazione. La sentenza definitiva è arrivata il 14 dicembre del 2011: conferma della sentenza d’Appello e epitaffio: la morte di Rasman «era pacificamente evitabile qualora gli agenti avessero interrotto l’attività di violenta contestazione a terra, consentendogli di respirare». Q
uello stesso giorno, i familiari di Riccardo chiesero formalmente le scuse da parte del ministero degli Interni (mai arrivate) e annunciarono la propria intenzione di procedere anche in via civile contro i poliziotti e lo stesso Viminale. Da alcune foto, uscite fuori quando ormai era tardi per il processo, si vedono segni anche dagli angoli della bocca fino alle orecchie di Rasman: ci vorranno altre perizie per chiarire se è vero che l’asfissia non è arrivata solo per lo schiacciamento sotto il peso degli agenti, ma anche per il soffocamento dovuto al bavaglio. Sembra un dettaglio, ma la causa civile di risarcimento si gioca tutta qui. Del caso se ne tornerà a parlare presto: nell’aprile del 2013, infatti, la procura di Trieste ha nuovamente chiesto l’archiviazione del caso.
L’avvocato Claudio De Filippi, che adesso segue la vicenda per conto della famiglia della vittima, ha detto che, a suo parere, tutto questo «si colloca tra il caso Sandri, per il quale lo Stato ha pagato tre milioni e mezzo, e il caso Aldrovandi, per il quale ha pagato due milioni di euro».
Resta, in mezzo a quel complesso e lunghissimo caos di carte e di cavilli che è la giustizia civile, la storia di un ragazzo che è morto per poco, praticamente per niente. E che tutto voleva fuorché dare fastidio: «Riccardo non ha mai fatto un Tso – conclude la sorella Giuliana -, non era violento né aggressivo, voleva farsi ben volere da tutti, anche per dimostrare questo abbiamo messo nel nostro dossier testimoni che descrivono come era Riccardo. In 3 anni che aveva quel monolocale non ci avrà dormito neanche cinque volte, anche il padre conferma che Riccardo andava lì qualche volta per farsi sentire e faceva andare la lavatrice, allora la vicina cominciava a battere la porta e Riccardo per farsi ben volere le portava la verdura della nostra campagna e le scrisse una lettera per favorire il buon vicinato»
nel monolocale non ci avrà dormito neanche cinque volte, anche il padre conferma che Riccardo andava lì qualche volta per farsi sentire e faceva andare la lavatrice, allora la vicina cominciava a battere la porta e Riccardo per farsi ben volere le portava la verdura della nostra campagna e le scrisse una lettera per favorire il buon vicinato»

Si evidenzia la suesposta cronaca, per notare:
da un lato, che la delittuosità della polizia, anche perché sostenuta da Forza d’Ordine Pubblico, irresistibile materialmente e “legalmente”, è tendenzialmente superiore, per crudeltà seviziosità abiezione proditorietà, a quella della peggiore delinquenza “civica”;
da altro lato, che la magistratura è ben lontana dal perseguirla (PM chiese la archiviazione), responsabilizzarla e sanzionarla: chiunque sarebbe stato accusato di omicidio volontario, o, al meno, preterintezionale, ben altrimenti sanzionati; chiunque, nella posizione della donna-poliziotto, accedente alla abitazione per il prelievo forzoso dell’abitante, presente alla sua esecuzione con la (sopra descritta) modalità, non impediente essa (pur avendone il dovere quale agente di p.g.), perfino, riferente telefonicamente, “in diretta”, essa, all’ufficio di Questura, sarebbe stato accusato di concorso (o cooperazione) nel reato.
Per notare, quindi, che polizia e magistratura appaiono, per ciò, istituzione unitaria: e  quando ciò accada, è (per principio)  irrealizzato lo “Stato di Diritto”.

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