20.04.16

Illegittimità genetica e funzionale delle Camere renziane

Non è chiaro in quale luogo dell’ordinamento sia stato pescato “il principio fondamentale della continuità dello Stato”, evocato da Cortcost con la sentenza n 1 2014, a sostegno della “continuità” delle Camere parlamentari dichiarate geneticamente illegittime, degli atti funzionali fin’allora compiuti e,  degli “atti” che in futuro compisse.
Certamente, “il principio” non era desumibile, malgrado suo contrario avviso, dalle disposizioni di legge costituzionale, espressamente derogatorie della regola di inerzia delle Camere scadute o sciolte, e con ciò prorogatorie (della loro funzione) fino alla costituzione delle nuove Camere (art 61); o richiamatorie d’esse (all’esercizio della funzione) “anche se sciolte”, per la conversione in legge di decreti legge adottati dal Governo (art 77).
Disposizioni di legge, le or dette, strettamente normative, giuridicamente ineccedenti, irridondanti, e, per ciò, del tutto inidonee a nutrire principii (“fondamentali” aggiunge la sentenza, con lessico stonatamente  giudiziario: i principii,  sono tali per principio….).
Pertanto, è stata la sentenza n.1 dell’anno 2014, essa e nient’altro che essa, a disporre che le Camere (dichiarate geneticamente illegittime) “continu(assero)”:
senza alcun potere giuridico di farlo, tanto meno il potere, oltre quello di conservare atti pregressi (d’esse) di assicurare atti futuri. E’ stata la sentenza, in altre parole, a disporre la “prorogatio” (il latinetto, della sentenza in parola, svela il bisogno del conforto retorico dell’assunto cognitivamente precario), la proroga della funzione delle Camere fuori del caso costituzionalemnte previsto.
D’altro canto, ricorrendo (tacitamente) ad una tecnica, di conservazione di atti previa loro indicazione (in specie, pealtro, significativamente mancata), memore di istituti processuali, penali, civili, amministrativi…, appositamente prevista legislativamente, ma del tutto estranea al processo dei giudizi  di costituzionalità “delle leggi”;  e troppo  evocativa  di una componente della Consulta, la magistratura (prevalentemente di Cassazione), avvezza, sopratutto se Penale, ad enucleare principii, tanto misteriosi geneticamente e morfologicamente quanto creativi di diritto. Ricorrendo,  cioè, la sentenza,  ad un artificio politico, politicamente conservativo dei poteri legislativi politicamente costituiti, ben connotativo della condizione istituzionale reale,  della Consulta.
Essa pronunciava munita esclusivamente del potere esercitato nel dispositivo della sentenza, munita del potere normativo racchiuso nel dispositivo. E di nessun altro.
D’altronde, secondo la volontà dell’art 136 della Costituzione, priva di ogni altro potere.
Per esso, le Camere, dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza, avrebbero potuto solo sciogliersi, o dovuto essere sciolte.

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