La privazione giudiziaria dei diritti civili della persona o di un insieme di persone, porta morte giuridica? E, questa porta morte fisica?
E l’induzione delle due morti, attività “legale” di incriminazione e di condanna a pena anche perpetua, potrebbe definirsi “eutanasia“? Nel senso, letterale, di buona morte, tanto più perché giusta, conforme al jus, al diritto?
Le risposte affermative andrebbero comunicate a coloro che combattono l’eutanasia in nome della “assolutezza del valore della vita”. Ma soltanto in relazione al trattamento medico del rifiuto di vivere, compreso quello, solo per estensione eutanasico, regolato col DAT (“Disposizioni Anticipate di Trattamento”) approvato l’altro ieri in Parlamento.
Mentre essi non combattono, anzi approvano (ferventemente apprezzano) il trattamento giudiziario della voglia di vivere, l’eutanasia giudiziaria sopra detta. Costante per “morte civile”, quasi tale per morte fisica, giacchè morbilità mentale e fisica, mortalità “naturale”, suicidiarietà, da carcere, sono, per quantità, prossime a quelle di un conflitto bellico locale. Tanto più che, esse, costituiscono carattere e scopo, funzione, del “trattamento”.
Ora.
Poiché questa eutanasia, eliminatoria, avrebbe funzione risanatoria, purificatoria, dell’insieme sociale, della sua razza, potrebbe definirsi eugenetica (nell’anno 1920, Alfred Hoche, psichiatra, Karl Binding, giurista, nella Germania prenazista, evocarono e invocarono “eutanasia sociale”…)?
La risposta affermativa, comunicata agli eutanasici giudiziari, potrebbe indurli a seriamente domandarsi in che cosa, il loro spirito, si differenzi da quello dei nazifascisti (eutanasici ed eugenetici archetipici e antonomasici).
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