1. L’indennità non è retribuzione corrispettivo stipendio salario compenso introito reddito guadagno. Essa e’, giuridicamente ed economicamente, ciò che rende indenne (letteralmente: senza danno diminuzione perdita patrimoniali) dai costi di una prestazione chi la fornisse. E che lo fa rimborsandoli.
L'”indennità” e ciò che prevede testualmente l’art. 69 della Costituzione. Per quanto detto, a rimborso del costo della prestazione parlamentare a chi la svolga. E inoltre a liberare la prestazione stessa, in chi il suo costo non potesse accollarselo.
D’altronde la sua origine e’ illustrativa.
Esclusa con l’art 50 dallo Statuto Albertino (1848- 1946) per i deputati e per i senatori, nel 1912, a seguito della elezione (democratica) di un portuale di Sanpierdarena, che per risiedere a Roma avrebbe dovuto dormire sui treni (lo avevano fatto altri), e “mendicare” per cibarsi, essa fu introdotta.
E mantenuta nei sopra visti limiti funzionali (fino alla soppressione fascista del Parlamento..).
Alla redazione della Costituzione repubblicana (ripristinante il Parlamento), il tema se essa stessa dovesse prevederla’ (anche per imporla ad altre norme, inferiori, che la escludessero o che la snaturassero) fu assai dibattuto da politici e giuristi (di rango).
Ed essi giunsero alla sua previsione (in art 69), pur senza esplicitazione dei limiti funzionali:
perché ritenuti impliciti alla storia dell’istituto (quella di Pietro Chiesa, il portuale suddetto); perche’ conformi all’etica politica; e comunque perche’ giuridicamente intrinseci alla nozione.
Dunque, indennita’ per liberare la prestazione parlamentare, veicolo della rappresentanza popolare, coprendone i costi.
Ma anche perche’, si noti, la prestazione, non liberasse lucro (arricchimento personale).
Sia perché questo avrebbe escluso la rappresentanza dell'”avere” medio dei rappresentati, e perche’ avrebbe indotto esso stesso diseguaglianza.
E sia perche, liberato che fosse (per di più in dimensione massiva di ceto), avrebbe sottomesso la prestazione parlamentare.
Cio’ che sciaguratamente e’ avvenuto.
Se ne ha prova, ed esempio, nella recente crisi governativo – parlamentare, ove, le addotte ragioni della permanenza degli eletti in parlamento, variamente nobilitate (con richiami agli interessi del Paese e via declamando), non sono riuscite a nascondere la ragione reale, seppure eventualmente non esclusiva, della conservazione e dell’incremento del lucro (dei prestigi e dei privilegii e degli onori e delle innumerevoli altre grazie del ruolo).
Cioe’, astraendo, quando la ragione politica o partitica spingerebbe allo scioglimento (anticipato) del parlamento, essa e’ rimossa, in vista del lucro piu’ duraturo (quinquennale).
Cio’ d’altronde sale da remoti attriti fra interesse privato e interesse pubblico, al seguito dei quali il primo ha sottomesso il secondo, fin nella sua piu’ alta funzione, quella del parlamento autonomamente legiferante.
Difatti quella funzione, il parlamento, la ha da tempo consegnata al Governo. Alla sua (costituzionalmente usurpatrice) decretazione “straordinaria ed urgente” ( art 77), che esso si limita a convertire in legge senza discutere, “sulla fiducia”.
Dunque la prestazione ha liberato il lucro, in dispregio dell’art 69 cit. (e degli altri dispositivi omotetici della democrazia costituzionale).
Il lucro ha sottomesso la prestazione.
Cio’ ha sabotato i fondamenti costituzionali dell'”Ordinamento della Repubblica” (artt. 55 ss, cost.)
2. Ma che cosa e’ accaduto giuridicamente?
E’ accaduto quel che non e’ infrequente nella confezione delle leggi “attuative” (in effetti traditive: che tradiscono) della Costituzione.
Nel 1965 fu redatta la legge (“ordinaria”, quindi impotente astrattamente a modificare la volonta’ costituzionale) n.1261, sulla infedelta’ della quale all’art 69 basti notare che il “rimborso spese” (peraltro in seguito esteso alle spese, non del parlamentare ma, degli immediatI tramiti fra lui ed i suoi “sodalizii”: i “portaborse”), e’ una delle numerose “voci” ( astuzia del lessico del lucro…) “indennizzatrici” della prestazione.
E che nondimeno e’ altra da quella (propriamente) “retributiva”.
E tutte insieme insieme fanno, del parlamentare, la personificazione dell’arricchimento piu’ inaccertatamente corrispettivo meritato guadagnato faticato sudato, debito, che il regime giuridico generale delle controprestazioni abbia conosciuto.
E non e’ adducibile autonomia normativa delle Camere che possa rimuovere o mascherare cio’.
Tanto meno e’ prospettabile esigenza di ” risparmio” (Di Maio..) che possa eliderlo o giustificarlo.
Ancora meno e’ attuabile risparmio mediante “taglio” (di piu’ di un terzo) dei parlamentari (Di Maio).
Perche’ l’indebito sarebbe raddoppiato. Consolidandosi, da un lato, il lucro dei restanti, da altro “risparmiandosi” (antisocialmente) in democrazia rappresentativa, in rappresentanza della totalita’ del popolo e delle su istanze!
3. Quindi, o si ritorna alla indennita, o è possibile cleptocrazia (prevalenza del latrocinio) e plutofilia (foia per la ricchezza materiale), antidemocrazia della specie della oligocrazia affaristica.
In misura talmente estesa, si noti, da realizzare storicamente un cambio di paradigma.
Dall’elettorato attivo su base censitaria (con lo Statuto suddetto, almeno in origine, solo i dotati di censo erano elettori: in seguito ne fu richiesta anche la alfabetizzazione…! ), all”elettorato passivo ad effetto censitario, cioe’ apportatore di lucro.
In altre parole, non e’ escludibile che la condizione statutaria dell’elettore sia sia convertita (in)costituzionalmente in quella dell’eletto.
E che travaglio storico della democrazia rappresentativa attraverso il modellamento dell’elettore, si sia disperso nella “democrazia” lucrativa dell’eletto.
D’altronde, oggi, “eletto” (che vorrebbe dire ” scelto”..) solo su proposta cooptativa di sospettabili centri di accumulazione e di distribuzione del nuovo censo: le organizzazioni politiche prevalenti.
Pertanto, non resta che aizzargli contro contro l’art 69…
Pietro Diaz