(Prima parte di due)
ANTEFATTO
NEI PRESSI DEL 1982, DELLA LEGGE ROGNONI LA TORRE….
1.La mafia spara e uccide, ed anche per la omertà del contesto ove vive, raramente se ne scopre l’autore.
D’altronde, la evoluzione sociopolitica del Paese è stata bruscamente interrotta dal“l’affare” Moro.
Altrettanto quella sociogiuridica (penale), dalle leggi eccezionali del “periodo cossighiano”, invero esordiente già da quell’affare.
Senonchè la mafia uccide anche tra poliziotti e magistrati. I cui morti non sono reputati anonimi, come gli altri, perché morti tra “servitori dello Stato”.
E se è (istituzionalmente) accettato che non abbiano esito le indagini sull’omicidio di chiunque, inizia a non esserlo, per nulla, che non lo abbiano sull’omicidio dei predetti.
QUALE IL RIMEDIO?
1.1 Se è ardua, per quanto detto, l’incolpazione del mafioso che uccida, non lo sarebbe quella del mafioso come tale.
Giacchè egli vive in aggregati sociali etnicamente connotati, caratterizzati, folclorizzati, per ciò visibili e captabili.
Quindi sarebbe facile incolpare lui attraverso quelli.
Ovviamente con leggi apposite, che, ad esempio, incriminassero gli aggregati quali “associazioni”.
Ed alle quali, se non si volesse indebolire “la risposta dello Stato”, assegnare pene da omicidio (detentive, in media, per un venticinquennio circa).
D’altronde quando la individuazione del singolo associato non fosse agevole, potrebbe essere aiutata da “testimoni o collaboratori” di giustizia, che adeguatamente remunerati “legalmente” (altrimenti sarebbero “subornati, in violazione di preciso divieto), potrebbero essere officiati, e tenuti in serbo all’occorrenza.
Peraltro, un abbozzo del loro ufficio era stato messo in scena nel “periodo cossighiano”, e l’esperimento si era rivelato proficuo.
DOPO LA LEGGE ROGNONI LA TORRE
2.Fu così, dunque, che, nel 1982, i due maggiori partiti politici (benchè “opposti”: DC, PCI) si allearono in Parlamento per comporre e avviare la legge ”antimafia” Rognoni-La Torre. Che introdotto nel codice il delitto di “associazione di tipo mafioso” (art 416 bis), in effetti cominciò presto a rimediare alle inefficienze indagative dell’omicidio ( o di altro grave reato) del singolo mafioso. D’altronde infliggendo, a questo come tale, pene da omicidio (come si diceva).
2.1 Non fu avvertito, allora (ed ancor meno oggi), il problema della restrizione della (libertà di) esistenza sociale di aggregati pur etnicamente forti, pregnanti e pur individualmente (variamente) delinquenti. Sebbene essa fosse garantita dalla Costituzione (art 18).
Né tanto meno fu avvertito il problema se, quel rimedio, in realtà, fosse antico come Iddio, e assai malvisto (e deplorato) dalla storia del diritto penale (di Pace e di Guerra).
Perchè era il rimedio cui erano ricorse le punizioni collettive, frustrate, quelle individuali, dalla impossibilità (o difficoltà) di “ scoprire il colpevole”.
Rimedio operante anche nella sottoforma (“moderatrice”) della “decimazione” (la punizione di uno su dieci di un gruppo di cento o di mille…).
Rimedii andanti, insieme, sotto il nome di “Responsabilità (intesa come responsabilizzazione) collettiva”, oggi fermamente osteggiati da varie Carte nazionali internazionali sovrannazionali, e con particolare veemenza dalla Costituzione italiana all’art. 27.1, per il quale la “responsabilità penale è personale” .
Tuttavia
2.2 A seguito della “innovazione” strategica suddetta, intere popolazioni “di tipo mafioso” o equivalente (camorristico… ‘ndranghetistico…), poterono essere imprigionate, anche a corrispettivo (surrettizio) di omicidii o di altre delinquenze individuali.
L’apparato di segregazione etnica di quei “tipi” si inorgoglì al punto che, con leggi successive (degradanti efficientisticamente la mafiosità probatoriamente certa alla possibile e perfino alla sospettabile), divennero aggredibili ”i patrimoni”, le “imprese”, le “aziende” . Escludibili, i membri degli aggregati, dalla economia privata e pubblica. O, se inclusi, brutalmente annientabili da confische di ogni avere.
2.2.1 Indi, l’apparato allungò i suoi tentacoli oltre l’isola di Sicilia, nel Meridione campanocalabropugliese prevalentemente, imprigionando interdicendo espropriando, disintegrando il tessuto sociopoliticoeconomico, devastando il compendio umano.
Il disastro, oggi, è nelle statistiche della povertà assoluta e relativa, della disoccupazione, del degrado morale, dell’analfabetismo di andata e di ritorno, della espansione della attività illegale a fine di sopravvivenza.
Dell’immiserimento e dell’immeschinimento d’ogni ordine, fra i più acuti del Globo.
L’IMPENNATA OPPRESSIVA REPRESSIVA DISTRUTTIVA
3. Ai primi anni ‘novanta, gli omicidii (parsi allora) di mafia, teatralmente compiuti in rapida successione, di due magistrati -che col “teorema Buscetta” da loro escogitato poi sperimentato con successo in Corte di Assise (centinaio di ergastoli e centinaia d’anni di pene detentive), per cui il delitto nel “mandamento” mafioso “non poteva non essere” delitto del suo Capo, perché questo “non poteva non sapere” e perché nessuno avrebbe osato commetterlo senza il suo pur tacito assenso…- inasprì quella prima “risposta dello Stato” (a base di “responsabilità collettiva”), sebbene fuori misura (anche storicamente).
Furono istituiti modi di imprigionamento annientativi di ogni facoltà della persona eccetto quella di vegetare (“41 bis”). Istituiti centri nazionali di inquisizione capillare e diretta in ogni parte del territorio, a comando unipersonale (il procuratore nazionale antimafia: ideato da un Ministro “socialista” della Giustizia, e da lui destinato ad uno dei due magistrati sopra ricordati). Furono generalmente incrementate le pene per i delitti (così, inoltre, portandone i tempi di prescrizione anche a mezzo secolo!), e le magistrature le attestarono sui livelli più alti, quando possibile sugli ergastoli.
E, a oltranza, da Cassazione penale, fu preparato l’avvento del “reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso”.
pietro diaz
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