Riforma del divieto di intercettazione del difensore per sua maggiore efficacia?
Se non è effettivo il divieto espresso nell’enunciato “non è consentita l’intercettazione relativa a conversazioni o alle comunicazioni dei difensori…nè a quelle tra i medesimi e le persone dal loro assistite”, in art 103.5 cpp:
quale riforma lessicale potrebbe renderlo effettivo?
nessuna ovviamente…
quindi, poiché l’effettività del (la fattispecie giuridica di) divieto è assicurata dalla sua sanzione (precetto e sanzione sono inseparabili, nuclei del diritto pubblico e della sua forza normativa: nulla, più di ciò, d’altronde, è condiviso dalla magistratura penale, straconvintamente sanzionatoria, pure oltre o contro il precetto), non resta, alla avvocatura (che non potrebbe politicamente sottrarvisi, essendo, oggi, a ben vedere, l’unico baluardo reale, della legalità generale e particolare), che innescare il processo sanzionatorio, della violazione del divieto; che denunciare, ex art 323 cp, i violatori ( una denuncia di massa, forse, conferirebbe almeno impudenza, alla non improbabile inazione penale, insieme al suo opposto, la azione, fondamento della monocrazia dei magistrati).
Il passo successivo, questo sì necessariamente riformatore, potrebbe essere la conquista legislativa, dalla avvocatura, del potere di azione penale sulle offese alle sue prerogative e guarentigie.
P.S. combattivo abbastanza, l’articolo in commento [apparso su IL Garantista], da imitare e diffondere (e un solo refuso: “detergere”sta per “detegere”).
Inchiesta Terra di Mezzo: l’uso strumentale e suggestivo di documenti, risultanze d’indagine, intercettazioni, il preannuncio di ulteriori operazioni, tendono a determinare un esito anticipato del procedimento basato sulla reazione emotiva e non sulla valutazione processuale. Questo comporta una alterazione del principio di parità delle parti con conseguente inquinamento dell’ambiente processuale. L’avvocatura penale, forte delle proprie battaglie, non si stanca di ricordare a tutti che il rispetto dei diritti e delle garanzie costituzionalmente previste deve essere la sola guida per esercitare l’attivitàgiurisdizionale in un paese democratico. Il durissimo comunicato della Camera Penale Roma. Sull’inchiesta Terra di Mezzo è un atto di coraggio. L’indignazione unanime dell’opinione pubblica avrebbe forse consigliato una di quelle prese di posizione anodine e caute che sono abituali in frangenti come questi.
Tuttavia l’uso strumentale e suggestivo di documenti, risultanze d’indagine, intercettazioni, il preannuncio di ulteriori operazioni tendono a determinare un esito anticipato del procedimento basato sulla reazione emotiva e non sulla valutazione processuale. E questo è un profilo che riguarda tutti i processi e tutte le indagini come su di un altro versante la vicenda di Ragusa dimostra. Questa sperequazione informativa si risolve in una alterazione del principio di parità delle parti con conseguente inquinamento dell’ambiente processuale. Costituisce un fenomeno divenuto nel tempo una modalità d’indagine. L’operazione Terra di Mezzo sicuramente ne costituisce una delle esemplificazioni più sofisticate e spettacolari: al di là delle risultanze di prova che qui non interessano, è il riflesso sui principi costituzionali del giusto processo che deve preoccupare ed essere respinto.
”I tempi cambiano, le emergenze si moltiplicano ed incidono sostanzialmente nel modo di legiferare, di fare le indagini e di esercitare la giurisdizione. L’avvocatura penale, però, è sempre la stessa, forte delle proprie battaglie, combattute ricordando a tutti che il rispetto dei diritti e delle garanzie costituzionalmente previste deve essere la sola guida per esercitare l’attività giurisdizionale in un paese democratico. La Camera Penale di Roma continuerà a vigilare con tutte le sue forze per contrastare ogni forma strumentale e distorta di esercizio della giurisdizione e di violazione del diritto di difesa.
La denuncia della Camera Penale di Roma
La Camera Penale di Roma ha denunciato già all’indomani della esecuzione della ordinanza di custodia cautelare relativa alla indagine “mafia Capitale”, l’illegittima spettacolarizzazione e diffusione di atti di indagine, la deliberata ricerca di una sponda mediatica tesa a creare consenso popolare, la pilotata fuoriuscita quotidiana di parti di informative di polizia giudiziaria che raggiungono lo scopo della preventiva distruzione della immagine degli indagati, prima – ed a prescindere – dallo sviluppo del processo. Un collegamento tra media ed investigatori che appare scontato, addirittura esaltato dalla stampa, e che in questo procedimento è quanto mai evidente, se è vero che gli ”esiti” delle indagini oggi di dominio pubblico erano stati anticipati molti mesi fa da un settimanale e le reazioni degli indagati monitorate dagli inquirenti.
Allo stesso modo i circuiti investigativi e gli ”ambienti” giudiziari diffondono la notizia di ”nuove iniziative”, ”di clamorosi sviluppi” e – addirittura – di “nuove operazioni” verso questo o quell’ambiente, politico, imprenditoriale, professionale, creando un effetto annuncio che appare in perfetta ed insanabile antitesi con le caratteristiche proprie di una indagine giudiziaria. Come avviene da anni, l’informazione non solo non ”controlla” il potere giudiziario, ma se ne fa strumento, ed in cambio utilizza atti che non sarebbero pubblicabili se la magistratura stessa esercitasse quel controllo di legalità, che pubblicamente rivendica, ma che sistematicamente dimentica quando è necessario creare e mantenere consenso attorno ad una indagine. Non importa se la diffusione delle notizie finisce per travolgere anche persone che non sono oggetto dell’accertamento, ovvero che sono citate solo occasionalmente nelle carte. Non importa se gli atti
giudiziari approdano sulle pagine dei quotidiani o vengono commentati nei talk show in tempo reale, beninteso solo nelle parti che gli investigatori hanno selezionato. Non importa neppure che le conversazioni registrate, che ovviamente ancora non sono state verificate dai difensori, siano diffuse ad arte senza nessuna reale garanzia di completezza.
La verità è che l’azione giudiziaria cerca Il consenso per intercettare gli umori della pubblica opinione, soprattutto ora che l’obiettivo dichiarato è quello di ”esportare” il modello di indagine sulla criminalità organizzata a qualsiasi altro fenomeno di rilievo penale ed in qualsivoglia contesto; ciò anche a costo di compiere, rivendicandole apertamente negli atti giudiziari, operazioni di ingegneria giuridica, sulle quali poi, e non a caso, si invoca una copertura legislativa ex post con la richiesta di includere, sic et sempliciter, nell’area del doppio binario, anche reati che affondano su realtà criminologiche e sociali del tutto diverse. L’uso massivo e prolungato delle attività di intercettazione e la loro pervasività, la contestuale applicazione di misure di prevenzione in uno con i provvedimenti di custodia cautelare, persino l’allontanamento degli indagati in custodia cautelare dai luoghi di arresto con la conseguente difficoltà, se non impossibilità, di avere contatti con i difensori, fanno ormai parte di uno schema ”facilitato e inquisitorio”, più volte sperimentato, in cui l’ indebolimento del diritto degli indagati, attraverso la normazione del ”sospetto”, come per le misure patrimoniali, ovvero l’inversione dell’onere probatorio, come per le esigenze cautelari, diventano un tassello necessario, ineluttabile di fronte alla ”emergenza’”, che non crea nessuna riflessione sulla progressiva estensione di una area di minorata difesa, che a suo tempo era stata giustificata proprio in base alla sua ”eccezionalità”.
Lasciando da parte il merito delle singole vicende giudiziarie, resta il fatto che in questa indagine, come da anni avviene nei distretti dove il doppio binario è la regola, l’esplicazione del mandato difensivo e gli stessi contatti tra clienti ed avvocati sono monitorati e citati nelle informative, i dialoghi telefonici sono ascoltati, i difensori sono identificati nelle relazioni di polizia giudiziaria: tutto ciò non solo nei casi in cui si ipotizza la violazione della legge da parte di qualche avvocato, ma anche quando appare evidente che gli avvocati si limitano ad esplicare il loro mandato! In questa indagine, un avvocato e’ stato sottoposto a servizio di osservazione – pedinato si sarebbe detto un tempo – benché nulla sul suo conto fosse minimamente ipotizzabile: una iniziativa di gravità inaudita, sulla quale non può calare il silenzio. Tutto ciò avviene perché l’area di riservatezza e di inviolabilità della difesa è ormai, nella prassi, ritenuta inaccettabile, tanto più quando i reati in esame trascendono all’empireo mediatico della “eccezionalità”.
In questo contesto l’ascolto delle conversazioni difensive sta diventando consuetudine ”preventiva” – quanto alle cosiddette intercettazioni casuali che nella stragrande maggioranza dei casi non sono affatto tali – mentre sempre più frequente è il posizionamento di microspie negli studi legali, che dovrebbe essere invece, per definizione, fatto eccezionale proprio per l’ineluttabile captazione di conversazioni coperte dal segreto, che riguardano, inevitabilmente, anche fatti e assistiti dell’avvocato estranei alla indagine. Gli esiti inquisitori di indagini protratte per anni, compendiate in migliaia di atti che solo gli inquirenti possono governare in sede cautelare, sono subito raccolti dalla politica che, per l’ennesima volta, dimostra di non voler ”governare” la legalità, pronta come è a licenziare provvedimenti legislativi di segno repressivo solo per accontentare gli umori pubblici, e magari allontanare sospetti di connivenza. Con la scarsa lungimiranza che la classe politica dimostra da decenni, si cede immediatamente alla richiesta di norme repressive, sull’altare di un simbolismo penale, feroce negli effetti contingenti ma di nessuna efficacia deterrente.
Dopo aver per mesi dichiarato chiusa la stagione dell’emergenza normativa ovvero innalzato peana sulla necessità di legiferare in maniera strutturale, si viviseziona la riforma della giustizia per estrapolarne, peggiorandole, le norme che possono essere contrabbandate come la efficace risposta alla emergenza che il circuito mediatico giudiziario ha imposto a quello politico. Il che avviene, al solito, senza alcuna considerazione per i dati reali, criminologici e giudiziari, sui quali si vuole legiferare, in tempo reale, senza che nessuno ricordi agli smemorati che ancora non si è asciugato l’inchiostro con il quale i demagoghi delle emergenze avevano riscritto le leggi sulla corruzione, alla fine del 2012.
Populismo penale, come si è più volte denunciato negli ultimi decenni, quello che porta a norme ipersimboliche, frutto di parole d’ordine, come quelle lanciate dal Presidente del Consiglio che, ricorrendo ai soliti slogan, promette di peggiorare la già pessima legislazione in tema di confisca. Tutto questo non è una novità, è già successo nella storia politica e giudiziaria del nostro Paese, in molte stagioni, non solo negli anni di tangentopoli, ma anche prima, quando alle emergenze vere, come il terrorismo o la lotta alla criminalità sanguinaria e stragista, si è opposto il frutto avvelenato delle leggi emergenziali, destinate a sopravvivere alle emergenze ed anzi a proporsi come modello ordinario. A nulla sono valsi in quei contesti i richiami alla necessità che il rispetto della legalità sia integrale, altrimenti si trasforma in un vuoto simulacro.
A nulla sono valsi, in quei momenti, gli appelli a non legiferare seguendo la spasmodica ricerca del consenso. A nulla è valso, in molti passaggi storici, rammentare che le garanzie della difesa sono coessenziali alla tutela della legalità costituzionale. Eppure noi, che lo dicemmo allora, oggi lo ripetiamo con la stessa forza e quasi le stesse parole, rammentando agli apprendisti stregoni dell’emergenza che la storia di tangentopoli lasciò sul campo, primo fra tutti, lo squilibrio dei rapporti tra chi fa le leggi e chi le dovrebbe applicare. I tempi cambiano, le emergenze si moltiplicano ed incidono sostanzialmente nel modo di legiferare, di fare le indagini e di esercitare la giurisdizione. L’avvocatura penale, però, è sempre la stessa, forte delle proprie battaglie, combattute ricordando a tutti che il rispetto dei diritti e delle garanzie costituzionalmente previste deve essere la sola guida per esercitare l’attività giurisdizionale in un paese democratico. La Camera Penale di Roma continuerà a vigilare con tutte le sue forze per contrastare ogni forma strumentale e distorta di esercizio della giurisdizione e di violazione del diritto di difesa.
http://ilgarantista.it/2014/12/16/vogliamo-cancellare-il-diritto-alla-difesa/
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